di Silvia R. Lolli
Visitando alcune città storiche dell’est ed alcuni dei loro musei, osserviamo altre contraddizioni, quando cerchiamo di capire in che modo si è formato lo Stato che ricordiamo si sente in dovere di esportare in tutto il mondo la propria democrazia. Per esempio la storia dice che i principi democratici voluti dai sette padri costitutivi gli Stati federali americani nel 1776 sono ben presto stati dimenticati.
La conquista dell’ovest ha permesso di invadere un territorio immenso annientando o relegando nelle riserve i nativi. Poi, nonostante una guerra civile sanguinosissima, ha esteso realmente a tutti i suoi cittadini gli stessi diritti e solo con la rivoluzione del 1967-68, come evidenziato in vari musei e mostre dedicati alla ricorrenza: le pari opportunità per neri, donne e omosessuali sono state difficili da ottenere ed ancora c’è sempre qualcuno che rimane sotto ad un altro.
Per loro gli immigrati da tenere lontano, al di là del muro in costruzione, sono ora i messicani. Fortunatamente non per tutto il popolo esiste questo bisogno. Leggiamo fra l’altro una notizia sul New York Times: si sta organizzando il nuovo censimento in modo da conoscere il censo dei cittadini; si vedrà, ma dalla prima lettura sembra un’altra contraddizione con l’idea iniziale “della rivoluzione”, l’accoglienza di tutti.
Spinte razziste appaiono su un trafiletto di un quotidiano di Philadelphia, perché informa che alcuni cittadini hanno trovato volantini razzisti probabilmente da collegare al KKK. Meno male che in una zona storica della città, dove gli abitanti negli anni Trenta del secolo scorso si sono opposti alla trasformazione urbanistica della città: Elfret’s Alley, hanno messo fuori dalle loro case un cartello significativo, scritto in varie lingue: qui tutti sono accettati.
Questo piccolo borgo all’interno della “Old Philadelphia” è oggi una meta turistica e gli abitanti organizzano per i turisti brevi passeggiate. Peccato che rimanga a ridosso della highway che divide la città dalle banchine del fiume Delaware, fiume oltre il quale si sviluppa ancora la città. Dobbiamo comunque ricordare che solo negli anni Duemila il paese ha eletto il primo presidente di colore, mentre l’elezione di una presidente donna non è ancora avvenuta, nonostante l’atto di pari uguaglianza delle donne del 1972 abbia contribuito alle pari opportunità.
Oggi infatti le donne hanno un certo peso, non solo in politica o quando nei musei vengono ricordate le madri della patria, ma lo vediamo anche alla Hall of Fame di Springfield. In questo museo del basket quello femminile è ricordato con parecchie atlete, allenatrici ed arbitri. Inoltre abbiamo appreso che anche nell’NBA c’è oggi la prima assistente coach femminile, cresciuta dai college fino appunto ai massimi livelli del professionismo maschile, Becky Hammon.
Lei è stata criticata perché l termine della sua carriera di giocatrice e diventata allenatrice della nazionale femminile russa, paese nel quale ha ottenuto la nazionalità. Il prossimo anno sarà una delle vici allenatrici della squadra dei S. Antonio Spur dove c’è l’altro assistent coach che conosciamo bene, Ettore Essina e dove è rientrato come giocatore Bellinelli. Viste le problematiche italiane dello sport femminile, che non riescono a trovare troppi riconoscimenti, questa carrellata al museo e nell’attualità sportiva americana sembra veramente un sogno.
Comunque i giorni a Washington, ma soprattutto a Philadelphia indicano bene il patriottismo americano; attraverso i percorsi turistici definiti, in cui si ritrovano file di cinesi, europei, americani spesso infinite, si respira ampiamente l’atmosfera patriottica, anche davanti alle memorie dei veterani di tutte le guerre. Già lo scorso anno in ogni città, anche le più piccole, i memorials dedicati ai veterani di ogni guerra sono curati e abbiamo visto spesso cittadini fermarsi in silenzio, forse a pregare, comunque a ricordare i militari morti.
Questo paese, fin dal suo nascere, ha inoltre contribuito all’ampliamento dell’industria militare, quella delle armi. È una riflessione che ci viene naturale quando vediamo esposta, al museo di Philadelphia, la domanda: “How Revolutionary was the War?” Quanto rivoluzionaria fu la guerra? Fu una “rivoluzione” dall’oppressore inglese lunga, difficile. Ha portato un popolo, ma non originario del luogo, a liberarsi e a darsi poi una costituzione nella quale gli ideali di indipendenza, libertà, uguaglianza e di felicità erano i principi fondamentali per il nuovo stato; alcuni di questi hanno trovato in Francia un decennio dopo un ulteriore sviluppo.
La domanda esposta al museo sulla rivoluzione è importante, perché innanzi tutto mette in luce la durata ed il successivo ampliamento del campo di battaglia. La Francia, era ancora una monarchia, ed altri paesi europei, Germania e Spagna, aiutano il nuovo piccolo stato a vincere contro re Giorgio III. È uno stato piccolo che ancora deve espandersi all’Ovest, ma dopo la vittoria definitiva sull’Inghilterra lo farà in poco tempo.Al di là dell’idea che abbiamo trovato esposta al museo, che si trattasse già di una guerra estesa al mondo, ci vengono altre riflessioni, suffragate spesso con le idee scambiate con le tante persone incontrate nel viaggio.
Nei musei storici visitati troviamo, oltre alla bulimia di patriottismo, certamente da noi molto meno sentito, sia una possibile spiegazione dello sviluppo della democrazia e del capitalismo, ma anche di cosa può rimanere un po’ nascosto dietro ad essi. Un’egemonia oligarchica e la spinta all’individualismo più sfrenato, assieme alla guerra costante in nome proprio della democrazia. Una guerra che, a guardare bene la storia, gli USA non finiscono mai: la guerra civile e quella di annientamento del popoli nativi, poi quella con Spagna, prima alleata, per il Messico e via via con gli altri paesi del mondo, fino ad arrivare ad oggi. Poi il patriottismo dei memorial dei veterani e ciò che viene detto continuamente per giustificare ogni guerra: esportiamo, portiamo la democrazia.
Poi veterani sopravvissuti ma sulle strade assieme ai tanti homeless… Intanto parliamo con le persone e non ci appare poi così ricco il paese, e sono ancora una volta d’accordo con noi rispetto all’idea di tipo di governo che hanno, poco democratico. Non è una gran democrazia se il suo popolo decide di votare solo per il 27. I nostri incontri e le osservazioni dei territori ci descrivono un paese dove le povertà e i disagi sono alti e i senza fissa dimora, che vediamo in tutte le città anche in quelle più ricche della costa dell’est, sono in aumento.
C’è una situazione direttamente proporzionale fra gli edifici sempre più alti al centro delle città e l’aumento degli homeless e delle povertà. Chissà se questi sviluppi di real Estate porteranno al l’ennesima bolla speculativa? Comunque a Boston chi ci accompagna in un giro in una parte storica della città ci assicura che i nuovi appartamenti non rimangono invenduti. A Boston la ristrutturazione non avviene come a Vancouver o a S. Francisco con la demolizione de vecchi palazzi e la costruzione di nuovi edifici, grattacieli.
Anche qui c’è qualche sacca di resistenza cittadina, come del resto a Boston è in corso una protesta contro la scelta di ristrutturare un intero quartiere vicino al parco Fens dove esiste ancora il primo campo da baseball della città costruito nel 1912 e lasciato a disposizione con una pista per la scorsa edizione altri spazi alberati ai cittadini. Si trova a fianco del museo di Fine Arts. Questo movimento di cittadini ci ricorda il nostro impegno partecipativo per il mantenimento dei Prati di Caprara, siamo infatti sulla via del ritorno.