Carmelo Maiorana: "La maggior parte dei nostri ponti sta messa male"

17 Agosto 2018 /

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di Alberta Pierobon
«Da quando l’ha saputo, ha passato ogni minuto della giornata a pensarci. Va da sé, la tragedia di Genova ha sconvolto tutti ma su di lui ha scavato un baratro. Perché nella sua testa, come in un film, si sono succedute le immagini della radiografia del ponte Morandi crollato e l’elenco delle responsabilità». Lui si chiama Carmelo Maiorana, ha 64 anni, non procede per ipotesi, piuttosto per analisi: è ingegnere strutturista, ordinario di Scienza delle costruzioni all’università di Padova. Ma prima delle questioni tecniche e delle relative spiegazioni, per forza si fa strada con angoscia un’analisi anche questa strutturale. Purtroppo strutturale, che riguarda un malcostume tutto italiano.
Come mai, professore, nessuno ha colto i segnali che hanno portato a questa tragedia?
«Questo è il problema. In Italia siamo indietro e tanto. La maggior parte dei nostri ponti ha necessità di un monitoraggio ininterrotto e di manutenzione costante. Operazioni che hanno dei costi».
Quindi è mancato il monitoraggio?
«Qui un altro problema. Io sostengo che chi si occupa dei controlli dovrebbero essere persone fuori dai giochi, persone che dicano la verità, libere di dire la verità. Invece spesso proprio chi è incaricato di monitorare, la verità non la dice: il perché è facile da spiegare. Perché dicendola teme di non avere più lavori di consulenza. E’ semplice, ed è questo il malcostume».

Un malcostume che quando presenta il conto, lo presenta in vite, vite umane.
«Per questo sarebbe necessario, fondamentale, che chi si occupa del monitoraggio avesse il coraggio di mettere sotto accusa chi fa male i lavori, e senza paura. Sarebbe fondamentale che fossero persone fuori dai giochi».
In Italia com’è lo stato dei ponti, in generale?
«La maggior parte risale al Dopoguerra, e il calcestruzzo armato dopo 50-60 anni ha bisogno di essere un osservato speciale».
A cosa ha pensato appena sentita la notizia dello spaventoso crollo? A quale causa?
«Subito ho pensato a un cedimento di fondazione. Invece così non è stato. Si è visto chiaramente dalle prime immagini: il pilone centrale è rimasto lì, non è crollato. Ho scrutato immagini e foto, tutto quello che ho trovato».
Quindi qual è la sua spiegazione?
«Quel ponte era una struttura fortemente degradata. Dopo 50 anni gli attacchi chimici e atmosferici hanno fatto la loro parte, a maggior ragione vicino al mare. Solfati e cloruri causano l’erosione del copriferro, la parte esterna del calcestruzzo armato. Dunque le armature rimangono a nudo e l’azione corrosiva avanza. E il pericolo di crollo diventa enorme. Questo è successo. Altro elemento che emerge è l’apparente assenza di segni premonitori, quindi di rottura fragile o dovuta a instabilità: questo fa presumere che sia avvenuta una crisi instabile delle parti compresse delle strutture di sostegno. E il crollo per instabilità dell’equilibrio è improvviso a meno che il manufatto non sia stato monitorato per lungo tempo con apposita strumentazione, anche in grado di percepire le emissioni acustiche date da eventuali microfessurazioni in atto. Per questo sono fondamentali il monitoraggio e la manutenzione: la durabilità delle strutture è un tema di cui ci stiamo occupando, le tecnologie ci sono».
Se ne vedono tanti ponti in queste condizioni?
«Sì, tanti. Troppi. Li vedi, tutti arrugginiti, malconci».
Come si possono ripristinare?
«O si smontano e direi che è una soluzione improbabile oltre che estremanente costosa o si ripristinano con varie modalità, ripeto le tecnologie ci sono».
Questo articolo è stato pubblicato da Eddyburg.it il 15 agosto 2018 riprendendolo dalla Nuova Venezia

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