I contratti di solidarietà espansiva: ecco di cosa si tratta

21 Maggio 2018 /

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di Sergio Palombarini
Capita di sentir parlare di un ammortizzatore sociale poco noto: i contratti di solidarietà. Mentre il 18 aprile il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali fa sapere agli italiani che i fondi destinati per il 2018 sono già tutti impegnati, gli operai di Emarc S.p.A annunciano 3 ore di sciopero negli stabilimenti di Chivasso e Vinovo, poiché i propri contratti di solidarietà sono in scadenza ad ottobre, nel silenzio della dirigenza.
Il giorno dopo un’altra dirigenza, quella della multinazionale americana Arca Group, dichiara la sua apertura ai contratti di solidarietà come contrappeso al programmato licenziamento di 102 operai nello stabilimento di Ivrea. Non si sottrae all’attualità dell’argomento nemmeno la Guardia di Finanza di Parma, che il giorno prima aveva arrestato 7 professionisti che, per mezzo dei contratti di solidarietà, avevano truffato i contribuenti per ben 2,3 milioni di euro.
Cosa sono i contratti di solidarietà? La storia dell’istituto inizia con la legge n. 863 del 19 dicembre 1984 ed oggi la disciplina dei contratti di solidarietà è contenuta nel d. lgs. n. 148 del 2015, attuativo del c.d. Jobs Act. La solidarietà di cui si parla è indubbiamente fra i lavoratori, ma in realtà questi contratti vengono stipulati fra i datori di lavoro e le rappresentanze sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale per due fini principali:

  • come misura per aiutare le aziende in crisi, il contratto di solidarietà difensiva;
  • per incrementare i livelli occupazionali, il contratto di solidarietà espansiva (art. 41 d. lgs. 148/2015).

Il contratto di solidarietà difensiva (di seguito CdSD) è forse più fedele al concetto di solidarietà fra lavoratori. Infatti, in caso di crisi aziendale, è possibile una riduzione delle ore di lavoro dei dipendenti, seguendo questa procedura:

  • innanzitutto bisogna verificare che l’azienda abbia i presupposti per accedere alla CIGS (cassa integrazione guadagni straordinari);
  • dopodiché si ricerca un accordo fra i rappresentanti sindacali ed il datore di lavoro per una razionalizzazione delle risorse umane e la diminuzione delle ore lavorative;
  • l’accordo a questo punto viene sottoposto al Ministero del Lavoro, che verifica i presupposti, la correttezza della procedura e, in caso di esito positivo, emana un decreto di autorizzazione che verrà presentato telematicamente all’INPS (istituto nazionale per la previdenza sociale);
  • infine l’INPS integrerà mensilmente dell’80% la retribuzione persa dai dipendenti, per un tempo massimo di 24 mesi in un quinquennio mobile e senza sottrarre le ore in meno dal calcolo dei contributi pensionistici.

Il secondo tipo, i contratti di solidarietà espansiva (di seguito CdSE), non sono ammortizzatori sociali, bensì un mezzo per creare occupazione, originariamente previsto dall’art. 2 della l. n. 863/1984, e da allora quasi totalmente ignorato. Per ovviare alla “mancanza di appetibilità” dell’istituto, il legislatore è dovuto immediatamente intervenire sulla disciplina, prima con la l. n. 208/2015 (ad appena 3 mesi dal d. lgs n.148/2015) e poi con il d. lgs. n. 185/2016, il più importante nel nostro discorso, ma che vedremo dopo brevi cenni alla disciplina in parola.
La normativa dei CdSE prevede, come per i CdSD, la possibilità di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti, ma con procedure ed integrazioni retributive sensibilmente differenti. La procedura è la seguente:

  • viene verificato che il datore di lavoro nei precedenti 12 mesi non abbia beneficiato della CIGS, né ridotto il personale dell’azienda (comma 3);
  • i rappresentanti sindacali ed il datore di lavoro ricercano un accordo, tenendo presente che, pena l’inammissibilità dell’istanza, la riduzione delle ore non modifichi la proporzione fra impiegati uomini e donne, salvo previsione nel CCNL di categoria (comma 4);
  • l’eventuale accordo viene depositato telematicamente presso l’ITL (ispettorato territoriale del lavoro), che ne verifica la correttezza (comma 7);
  • infine L’INPS, mensilmente e per ogni lavoratore, attribuirà al datore di lavoro un contributo per integrare la retribuzione:
    • a) il primo anno del 15% della retribuzione lorda, il secondo anno il 10% ed il terzo anno il 5% (comma 1);
    • b) per i lavoratori assunti con età compresa fra i 15 ed i 29 anni la quota è pari a quella prevista per gli apprendisti (comma 2), quindi il 10%;
    • c) i limiti numerici previsti per l’accesso ad agevolazioni di carattere finanziario e creditizio (comma 8);
    • d) anche in questo caso le ore lavorative perse non vengono sottratte dal computo dei contributi pensionistici (comma 6).

Questa la formulazione ex d. lgs. n. 148/2015 dell’istituto, che, come già detto, non ha avuto finora grande successo. Per cercare di dare maggiore impulso alla disciplina in prima battuta vi è stato, con la l. n. 208/2015, un primo intervento legislativo, che, inserendo nell’art. 41 un nuovo comma 2bis, ha previsto che i datori di lavoro, gli enti bilaterali e i fondi di solidarietà “possano” versare i contributi pensionistici relativi alla retribuzione persa.
Anche questa “possibilità” non deve aver convinto troppo e, pertanto, con il preciso intento di promuovere l’istituto, il d. lgs. n. 185/2016, art. 2, comma 1, lett. c), ha previsto la possibilità di trasformare i CdS difensivi in CdSE (espansivi). II vantaggi della nuova disciplina per il datore di lavoro rilevano sotto il profilo dei costi aziendali:

  • le quote di accantonamento del TFR relative alla retribuzione persa sono a carico dell’INPS, ad eccezione di quelle relative ai lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo o nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo;
  • la contribuzione addizionale prevista dall’art. 5, sempre in riferimento al TFR, è dimezzata;
  • la retribuzione integrata dal datore di lavoro è esente da contribuzione e soggetta a tassazione fiscale.

Le condizioni sembrerebbero molto vantaggiose, però, stando ai calcoli della circolare n. 13/2016 della Fondazione Studi per i Consulenti del Lavoro, “a parità di trattamento per il lavoratore”, il datore di lavoro subirebbe costi maggiori nel primo e nel secondo anno. Costi che, ovviamente, sarebbero bilanciati dall’inserimento nell’organico di nuove forze più giovani, essenziali in un’ottica imprenditoriale che non può prescindere dalla dinamicità della sua forza lavoro.
Rimane però il punto della parità di trattamento per il lavoratore. Se il datore di lavoro, non un cattivo da fumetto, ma un imprenditore onesto o addirittura benevolo, non potrà prevedere dei vantaggi anche di ordine economico, molto probabilmente n sede di contrattazione cercherà di “tirare sul prezzo” e non mantenere equivalente il trattamento dei suoi dipendenti.
D’altra parte ai lavoratori si prospetta, al termine del CdSE, un diminuzione permanente della retribuzione: come potrebbero “digerire” un trattamento economico peggiorato anche nel periodo in cui l’azienda, ormai non più in crisi, gode di contributi statali? Questi dubbi saranno risolti dai fatti. Nel frattempo è diffusa l’opinione di chi individua la causa dell’inutilizzo dei CdSE nella stabile riduzione del salario, più che nella mancanza di benefici delle aziende.

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