Le cucine popolari di Bologna: qui si trovano le parole smarrite dalla politica

12 Aprile 2018 /

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di Bruno Giorgini, ha collaborato Amalia Tiano De Vivo
Mia nonna Lisetta irriducibile comunista ebbe a dirmi una volta quand’ero bimbetto: a Bologne sono rosse anche le pietre. Lei viveva a Ravenna, suo marito era anarchico, le sue figlie e il primogenito tutti comunisti al tempo del fascismo, che facile non era. Facile non fu nemmeno dopo la Liberazione, quando una delle figlie finì incarcerata da Scelba, odiato ministro degli interni di fede democristiana, e tutti ebbero difficoltà economiche e di lavoro, se non fosse che nacquero anche le cooperative rosse, eredi delle antiche cooperative socialiste che le squadracce avevano incendiato e bruciato. Cooperative che oggi chiameremmo eque e solidali, di produzione, agricole, di consumo, culturali.
Per Lisetta Bologna era la capitale di tutto questo fermento per rendere migliori le condizioni di vita, di lavoro e di libertà dei braccianti come lei e suo marito Potastila, delle figlie operaie e sarte, del figlio fornaio. Quando poi una delle figlie si sposò bene, trasferendosi a Bologna a fare la signora, Lisetta prese spesso la corriera per andare a trovarla, scoprendo che a Bologna rosse erano le pietre non soltanto in senso politico e figurato, ma rosse erano proprio le pietre con cui si costruivano le case.
Se non solo i cuori ma anche le mura a Bologna erano comuniste, secondo lei per sradicare da lì la bandiera rossa i padroni, i capitalisti, i democristiani avrebbero dovuto materialmente radere al suolo la città. Il che le pareva del tutto impossibile, “a meno non venga un’altra guerra”. Si trattava di un sentimento condiviso nella cerchia dei comunisti dove sono nato e cresciuto tra un raduno dell’ANPI e una festa dell’Unità. Cerchia che racchiudeva larga parte del popolo, coi socialisti spesso la maggioranza.

Bologna è la prima grande città a avere un sindaco socialista Francesco Zanardi nel 1914 e il primo sindaco comunista Giuseppe Dozza nel 1945 dopo la Liberazione fino al 1966 (in verità assieme a Roveda sindaco di Torino che però rimase in carica solo fino al 1946). Anche l’Ulivo prodiano nasce tra queste pietre rosse e qui si nutre, crescendo fino alla vittoria contro Berlusconi nel 1996.
E l’altro ieri in questa città è stato eletto al senato Pier Ferdinando Casini alfiere democristiano di destra nonché berlusconiano a tempo perso, candidato dal PD, di cui proprio Prodi fu tra i padri fondatori nel 2007. Una candidatura propiziata da Renzi in prima persona con tanto di presentazione a una delle ultime superstiti Case del Popolo, a sfregio dell’intera tradizione riformista di origine socialista, comunista, e cattolico democratica – dossettiana – che, non dimentichiamolo, ha visto a Bologna e in Emilia l’unico campo di sperimentazione e prassi politica di popolo. A fronte Vasco Errani di LEU, incarnazione di quella stessa tradizione, moderato quanto basta e onesto, uscendo pulito che più non si può dal tritacarne della magistratura.
In molti pensavano che sarebbe stata una battaglia all’ultimo voto, e invece Casini ha ottenuto oltre il 34%, mentre Errani arriva terzo con l’8.66%, dopo Michela Montevecchi del M5S al 24%. Nè si può spiegare nell’ambito del più generale andamento elettorale. Anche a Bologna il PD ha perso, assai in tutti i quartieri popolari, sempre meno mano a mano che ci s’avvicina al centro, per aumentare i suoi voti nel quartiere Colli, laddove abita la borghesia delle ville lontana dallo smog, con un panorama da leccarsi i baffi, un silenzio rotto solo dallo stormir di fronde.
Allora abbiamo scelto per contrappasso di andare a vedere cosa capita alla un tempo capitale del riformismo dalla finestra delle Cucine Popolari, luoghi per la socialità conviviale dei poveri. Roberto Morgantini che le ha inventate ci tiene molto: non è una mensa coi vassoi a catena di montaggio. Qui ci si siede comodi, si mangia un buon pasto – sul serio buono – in piatti di ceramica, con posate d’acciaio e bicchieri di vetro, si rimane a conversare, si cerca di creare l’atmosfera di un pranzo in famiglia. Inoltre si coinvolgono gli ospiti, quelli disponibili, nelle attività necessarie per tenere in piedi il tutto, raccolta e sistemazione delle derrate per esempio, cosicchè diventano responsabili, parte attiva delle Cucine. Nonchè ne nasce a volte un sentimento di gratificazione, restituendo in qualche modo quel che ricevono.
Perchè i poveri di cosa sono ricchi? – è sempre Roberto a parlare – sono ricchi di tempo, troppo spesso vuoto, inutile che assomiglia al nulla, inducendo alla depressione. Ma se quel tempo lo riempiamo in modo utile alla nostra comunità per noi e per gli altri, ecco che un poco la vita si strasforma, diventa migliore. Non è sempre facile, qua ci sono persone che sono spesso agli ultimi, e tenerli insieme può essere un lavoro duro. E non sempre riesce però questa è la nostra ispirazione. All’inizio avevamo messo in ogni tavolo dei facilitatori, adesso non ce ne è più bisogno, anche da questo si misura la crescita dell’iniziativa.
Roberto Morgantini, un passato prima da militante del ’68 poi nel sindacato, e infine qua dove lo incontriamo in una delle tre Cucine, aveva questa idea da abbastanza tempo, e per finanziarla aveva fatto il giro delle sette chiese e qualcuna in più, ricevendo molti complimenti ma pochi aiuti materiali. E soldi in proprio non ne aveva. Così l’idea buona rischiava di sfllacciarsi, di essere confinata ancora una volta nel regno dell’utopia – il luogo che non c’è, la cassaforte dei sogni.
Finchè Roberto ebbe con Elvira la buona intuizione. Dopo trentotto anni di convivenza fidanzale, decisero di maritarsi, facendone l’occasione di un gigantesco crowd funding perchè un po’ tutti quelli della sinistra sociale e intellettuale vollero partecipare. La colletta portò nelle casse della nascente prima Cucina Popolare circa settantamila euro, e l’avventura potè cominciare. Oggi si regge sul lavoro di un centinaio di volontari, di cui molti venivano all’inizio come meri ospiti, mentre gli ospiti “fissi”, inscritti, sono circa duecentocinquanta, con tre Cucine aperte che dovrebbero diventare sei, cioè una per quartiere. L’impresa non ha nessun finanziamento pubblico ma si avvale di una vasta rete di sostenitori, cooperative, aziende alimentari, organizzazioni e associazioni varie dall’Arci ai sindacati, singoli bottegai alcuni di peso commercianti del centro, produttori agricoli, eccetera. Inoltre quasi ogni giorno c’è una qualche iniziativa che movimenta lo spaziotempo delle Cucine.
Quando noi arriviamo è in pieno corso la “tagliatella solidale”, dove le celeberrime sfogline bolognesi della “missione mattarello” impastano e tirano la sfoglia, la arrotolano e tagliano, en plein air per così dire, una dimostrazione a effetto ma anche la spiegazione pratica di un mestiere. Così si accumulano le tagliatelle, che verranno servite al ragù, per secondo le crochette di pollo con verdura cotta o cruda. Si beve acqua, ma a fine pasto si può chiedere un bicchiere di vino nonchè l’immancabile caffè. Un menù di tutto rispetto. Il giorno prima le Cucine avevano visto l’arrivo di alcune classi delle scuole elementari, bimbetti di otto anni che si sono divertiti un mondo e hanno imparato qualcosa. Come imparano il famoso avvocato o l’alto dirigente bancario, il primario o l’ex assessore, che servono ai tavoli.
Già perchè le Cucine Popolari sono una sorta di mescolatore sociale che mette in contatto l’alto col basso, il povero e il benestante, chi ha un tetto e chi dorme sotto i portici. Certo è un momento, qualche ora poi ognuno torna donde è venuto, però conta, fa bene all’anima e al corpo un luogo dove ci si può incontrare facendo a volte pure qualcosa insieme che trascende il momento del pasto. I pasti serviti al tavolo si hanno soltanto a pranzo, però può, chi vuole, fare la spesa, tonno, pasta, olio, pane eccetera, oppure una vaschetta di tagliatelle e pollo, insomma il pranzo da asporto. Gli ospiti sono innanzitutto quelli indicati e mandati dai servizi sociali comunali e dalle parrocchie, quindi altri/e solidali o semplicemente curiosi, o che vengono a trovare un amico, insomma le persone più varie senza alcuna preclusione che mangiano lasciando un obolo a offerta libera, e se qualche povero fuori lista passa di là non viene certamente tenuto fuori dalla porta.
Roberto batte e ribatte che non è una iniziativa di carità e/o meramente assistenziale ma di solidarietà, che mira a far crescere in città un sentimento e un’opera di solidarietà attiva, la carità è un gesto, la solidarietà un processo, un percorso, uno sviluppo. Non necessariamente con la faccia severa, penitente o contrita, perchè qua nella Cucina Popolare sono venuti da oltre oceano i Metallica donando trentamila euro e in un giorno qualunque, come quello in cui siamo capitati noi, i sorrisi e i volti distesi non sono pochi, anzi. Che, sempre Roberto parla, quel che pesa e incupisce non è solo o tanto la penuria materiale bensì la solitudine. Quando perdi il lavoro per esempio, interrompi per forza di cose anche molti legami sociali e/o affettivi, lo stesso dicasi per la casa per cui ti ritrovi solo come un cane affondando ogni giorno un po’ di più, e le Cucine sono un modo e un luogo per temperare se non rompere questa solitudine da povertà.
Le Cucine Popolari sono laiche, e comuniste mi vien da dire scherzando, ma hanno buonissimi rapporti con la Chiesa, il nostro Arcivescovo Matteo Zuppi ci sostiene in modo aperto a tal punto che quando è venuto il Papa e i poveri hanno pranzato dentro S. Petronio, una cosa bellissima, io mi sono ritrovato al suo stesso tavolo, che se ci pensi, per uno come me…
E siccome ormai mangiato abbiamo, e molto, stiamo per alzarci e salutare, quando Morgantini ci racconta l’ultima storia. La pulizia del ponte di Stalingrado, tutto imbrattato da oscenità. Una azione delle Cucine Popolari per la cura della città, solidale – molti ospiti hanno partecipato – e infine estetica perchè centoventi artisti hanno ridipinto il ponte con le loro opere, nascendone oltretutto un libro. E qui domando: immagino ci siano spesso situazioni borderline, che non sia proprio tutto rose e fiori, come te la sbrogli in questi casi. Con milioni di ore di diplomazia e tolleranza. Con la persuasione e non imponendo le mie convinzioni, e sai tu quante parole ci vogliono, per fortuna stiamo imparando a dirle. Andando via mi viene in mente che siano proprio quelle parole che ormai la politica ha smarrito. Tanto più nella Bologna di Casini.
Questo articolo è stato pubblicato dall’Inchiesta Online il 7 aprile 2018

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