di Gloria Riva
Qualcuno grida «Attenti!», ma il palco viene giù in una frazione di secondo. Matteo Armellini, trent’anni, muore sul colpo. Schiacciato. Doveva montare le luci per illuminare il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria. Era il 5 marzo del 2012 e i giornali non parlarono d’altro: uscire di casa per lavorare e non fare ritorno. Assurdo. Passò qualche giorno, la polvere dell’indignazione si sedimentò e restò soltanto Paola Armellini, la mamma, che oggi ha 76 anni e ancora cerca giustizia. Il processo va per le lunghe, cambia il giudice, cambiano i pm, si riparte daccapo. Risultato: dopo sei anni, ancora non si sa di chi sia la responsabilità per quel palco non in regola. «Alle ultime udienze si gioca a scarica barile fra committenti», racconta Paola.
A processo, sul banco degli imputati, ci sono sette impresari che in quel cantiere avevano un appalto, in subappalto da un altro subappalto, e così via fino a costruire una matassa impossibile da districare: «Lo fanno apposta. Così quando succedono disgrazie il responsabile non è nessuno. Ma deve venire fuori», Paola non demorde. Eppure s’avvicina la prescrizione: e allora Matteo potrebbe non avere giustizia. «Servirebbe un processo esemplare, severo, in tempi giusti. Perché nel frattempo le morti sul lavoro non si sono fermate», e neppure il diabolico sistema del subappalto. Al contrario, le disgrazie hanno ripreso a correre e non è una fatalità. L’Espresso racconta cosa sta succedendo nelle aziende italiane e perché.
Precari più a rischio
Nel 2017 hanno perso la vita – ufficialmente – in 1.115 (più 1,1 per cento sul 2016). Una mattanza. E il 2018 è iniziato nel peggiore dei modi: il 16 gennaio a Milano quattro operai sono morti per asfissia alla Lamina, una piccola azienda metalmeccanica. Due giorni dopo a Brescia, un ragazzo di 19 anni è rimasto incastrato con la manica del maglione nel tornio, è successo sotto agli occhi del padre, titolare dell’azienda.
Mentre tutti parlano dei robot pronti a soppiantare gli operai, si continua a morire in fabbrica. Perché il lavoro è diventato precario e sui precari non si fa formazione. Perché anche quando si fa, la formazione troppo spesso resta sulla carta e corsi veri non ci sono. Perché le aziende, dopo anni di crisi, hanno ricominciato a produrre su macchine e impianti vecchi e non hanno soldi da investire nella sicurezza. Perché gli ispettori sono pochi e la probabilità per un’impresa di essere controllata è infinitesimale.
L’effetto collaterale della ripresa
L’Espresso anticipa i risultati del rapporto annuale Anmil, l’associazione degli invalidi del lavoro, che lancia l’allarme sugli effetti collaterali della ripresa economica: il Pil, il prodotto interno lordo che misura la ricchezza del paese, è cresciuto dell’1,5 per cento nel 2017 e il numero di occupati ha superato 23 milioni di unità, soglia sorpassata solo nel 2008, «ma la manodopera è diventata precaria e quindi non adeguatamente formata», spiega Franco Bettoni, presidente dell’associazione, che aggiunge: «La crescita occupazionale, infatti, si è avuta sui lavoratori a termine, più 605 mila unità, a scapito del lavoro a tempo indeterminato, che cala di 117 mila. La formazione è l’unica arma per far arretrare le stragi in fabbrica, ma il mercato del lavoro è diventato instabile e quindi i giovani non vengono adeguatamente formati. Sono loro i più a rischio ed è per questo che la sicurezza dovrebbe essere insegnata nelle scuole».
Poi c’è l’invecchiamento delle macchine, segnalato dall’Ucimu, l’associazione dei costruttori di macchinari, alla Camera dei Deputati nel 2016 con un report sull’età degli impianti installati nelle aziende italiane: «Il parco macchine è molto più vecchio di quello di dieci anni fa e l’età media è la più alta mai registrata da 40 anni a questa parte», avvertiva il report. In risposta il governo ha avviato un piano di incentivi per la sostituzione dei macchinari obsoleti, come Industry 4.0, mentre l’Inail ha messo sul piatto 250 milioni per la sostituzione di macchine e trattori agricoli, che sono causa di molti incidenti nei campi. Sembra che l’arma degli incentivi stia funzionando, perché l’Ucimu afferma che nel 2017 gli ordini di nuovi macchinari da parte degli imprenditori italiani sono aumentati del 46 per cento.
Due aziende su tre irregolari
A controllare 4,4 milioni di imprese italiane ci sono 3.500 persone, di cui 2.800 ispettori delle Asl, più 300 funzionari del ministero del Lavoro che intervengono per lo più nel settore edile, e altri 400 carabinieri. Il 97 per cento delle aziende ha quindi la ragionevole speranza di non essere mai visitata. Ecco perché per l’imprenditore è più importante riempire qualche modulo – per essere in ordine con la burocrazia -, anziché verificare la presenza di sistemi di protezione contro le cadute. Ed è più utile spendere un po’ di quattrini in formazione, magari da fare online o da falsificare, anziché organizzare veri corsi fra le catene di montaggio o nei cantieri.
Perché non solo la probabilità di un controllo è remota, ma il sistema italiano di prevenzione è talmente frammentato da rendere complessa qualsiasi verifica: il ponteggio è collaudato dall’ispettore del lavoro, i montacarichi dall’Ispels, istituto per la prevenzione, mentre l’Asl si occupa della verifica dell’ascensore dell’ufficio e il ministero dello Sviluppo economico verifica la regolarità delle miniere, mentre le Regioni entrano in scena nel settore dell’industria estrattiva di seconda categoria. Poi ci sono i vigili del fuoco con l’occhio puntato sulle norme anti-incendio. Detto questo, gli esiti dei controlli sono sconfortanti: l’ispettorato del lavoro nel 2017 ha effettuato 190 mila controlli e due aziende su tre sono risultate irregolari.
Pochissimi i casi che vanno a processo
Quando in azienda qualcuno perde la vita o subisce lesioni gravi, cioè nel dieci per cento dei casi di infortunio, allora la procura apre un procedimento. Tuttavia si arriva a processo solo tra il 2 e il 3 per cento dei casi, spiega Beniamino Deidda, ex procuratore generale del Tribunale di Firenze, da sempre in prima linea nelle inchieste sulle morti bianche. Racconta Deidda che in molti casi la notizia di reato non viene neppure comunicata alle procure e che le indagini «dovrebbero essere svolte dalla polizia giudiziaria preposta, cioè dagli stessi ispettori delle Asl, che sono pochi e hanno già molti compiti da svolgere. C’è un’enorme sproporzione fra quello che lo Stato investe per combattere gli infortuni sul lavoro rispetto alla reale necessità. A questo si aggiunge l’assenza di cultura della sicurezza», dice Deidda.
Anche quando i processi arrivano a termine, non sempre offrono giustizia. Graziella Marota è la madre di Andrea Gagliardoni, un ragazzo di 23 anni, morto nel 2006 in un’azienda di Ortezzano. Lavorava su un macchinario che imprimeva l’inchiostro sui frontali degli elettrodomestici. Alle sei di mattina del 20 giugno Andrea ferma la macchina perché dava problemi e, per ripararla, infila parte del proprio corpo al di sotto della pressa. Proprio in quel momento la pressa, da sola, rientra in funzione. «Quel macchinario doveva avere tre sistemi di sicurezza, ma per velocizzare la procedura ne era stato installato solo uno», racconta Graziella. Dopo un processo durato anni, i due imputati, l’amministratore dell’azienda di Ortezzano e l’impresario della ditta che costruiva la macchina su cui lavorava Andrea, hanno patteggiato una pena di otto mesi con la condizionale. «A loro neanche un giorno di carcere, a me un ergastolo», si sfoga Graziella.
Prevenzione zero
Lo Stato investe sempre meno in controlli e prevenzione e, a causa del blocco delle assunzioni, gli ispettori delle Asl sono passati da cinquemila nel 2008 a meno della metà. Inoltre quasi nessuna Regione raggiunge la quota del cinque per cento di spesa che per legge dovrebbe essere destinata alla prevenzione negli ambienti di vita e lavoro. In Lombardia, ad esempio, si spende circa il 3,7 per cento.
Dopo il grave incidente alla Lamina di Milano, che ha provocato la morte per asfissia di quattro persone, l’allora governatore Roberto Maroni ha annunciato lo stanziamento una tantum di sette milioni per incrementare l’attività di prevenzione e vigilanza delle Asl, «una modesta cifra rispetto a quella che avrebbe dovuto essere impegnata per rispettare il coefficiente del cinque per cento della spesa sanitaria. Tanto più esigua se si considera che per legge i soldi delle sanzioni, provenienti dall’attività ispettiva, dovrebbero essere reinvestiti in attività di prevenzione nei luoghi di lavoro, cosa che in Lombardia non succede», dice Susanna Cantoni, medico, già responsabile del dipartimento sicurezza sul lavoro nella Asl di Milano e oggi presidente del Ciip, la Consulta italiana per la prevenzione.
Se la formazione è finta
Sempre Cantoni ha avviato una vera battaglia contro i finti corsi di formazione: «Le norme ci sono, ma purtroppo la sicurezza dei lavoratori, la prevenzione, il rispetto delle norme vengono visti come un orpello cui dedicare il minimo possibile di attenzione, tempo e risorse, assolvendo solo formalmente agli obblighi di legge per essere a posto in caso di ispezione». Cantoni racconta che l’Asl di Milano ha segnalato alla Procura una decina di società indagate per contraffazione, truffa e associazione a delinquere.
Succede perché il business della formazione fa gola a molti: nella sola Lombardia vale quasi un miliardo e mezzo di euro se si considera che ci sono 4 milioni di dipendenti che devono fare corsi formativi del costo di 400 euro lordi a testa. Però l’imprenditore può risparmiare scegliendo un corso fittizio: «Ci sono società che, con la complicità di un ente paritetico (cioè di un sindacato o di un’associazione dei datori di lavoro), falsificano gli attestati di formazione e addirittura non svolgono neppure i corsi, ma si limitano a rilasciare dei patentini contraffatti», sostiene Cantoni. Il rischio per l’imprenditore è una semplice multa, «ma i dipendenti rischiano la vita.
Perché quei finti corsi, alle volte mai fatti, altre volte realizzati online, interessano anche attività di cantiere, come il montaggio dei ponteggi e delle impalcature», spiega il presidente della Consulta. Conferma il presidente degli edili della Confartigianato lombarda, Virgilio Fagioli: «Anche noi in associazione riceviamo segnalazioni da parte di imprenditori che ci fanno notare come alcuni colleghi prendano sotto gamba la formazione del personale, affidandosi a falsi formatori. È concorrenza sleale e un danno per l’intera categoria».
Dieci milioni di persone senza Inail
L’83 per cento degli incidenti si verifica in piccole e medie aziende, dove si investe meno sulla prevenzione. «Manca la cultura», Luca Nieri della Fim Cisl di Bergamo racconta che i piccoli imprenditori sono convinti di risparmiare rimandando la manutenzione sulle macchine: «Senza pensare che un infortunio equivale alla chiusura dell’azienda. Inoltre investire in innovazione significa facilitare la produzione e rendere la fabbrica e i processi più sicuri».
Colpa anche dei costi burocratici, che sottraggono risorse altrimenti utilizzabili per la formazione, come spiega Ferruccio Righetto della Confartigianato veneta che snocciola cifre: «Nel primo anno di attività un’azienda di 10 dipendenti, che fattura circa tre milioni di euro, deve accollarsi 14 mila euro di costi per le certificazioni sulla sicurezza previste per legge, negli anni successivi la spesa si assesta attorno ai 2.200 euro». In Veneto l’associazione degli artigiani si è alleata ai sindacati per creare corsi di formazione specifici, sostenendone anche i costi: «I risultati ci sono, gli incidenti stanno diminuendo», racconta Righetto.
Un caso unico, perché nelle altre regioni d’Italia si continua a morire, qualche volta in silenzio, perché non sempre l’Inail, l’ente nazionale assicurazione infortuni sul lavoro, tiene il conto. «Gli assicurati Inail sono quasi 16 milioni, le posizioni Inps indicano 23 milioni di occupati», spiega Sebastiano Calleri della Cgil, preoccupato per la piega che sta prendendo il fenomeno. E racconta che lo scarto comprende alcune categorie professionali che non versano contributi all’ente assicurativo, come i vigili del fuoco, le forze di polizia, i commercianti titolari, le partite Iva, parte dei lavoratori agricoli. E poi, ovviamente, nel conto non ci sono i lavoratori in nero e i precari.
In tutto mancano all’appello 10 milioni di persone, che non vengono considerate. Poi c’è una novità, «una nuova moda», la definisce con asprezza Calleri della Cgil: «Consiste nel non denunciare gli infortuni avvenuti sul posto di lavoro». Il motivo? «Per non far aumentare i premi assicurativi che l’imprenditore deve pagare all’Inail», spiega il sindacalista. Si torna sempre lì, a quell’orpello, a quel costo in più, che è la sicurezza. Del resto, quanto può valere una vita umana? A Paola Armellini è stato offerto un risarcimento da 350 mila euro per la morte di Matteo. Ha rifiutato: «Nessuna cifra potrà ridarmi mio figlio».
Questo articolo è stato pubblicato dall’Espresso il 2 aprile 2018