Winnie 4 ever: la resilienza al femminile

9 Aprile 2018 /

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di Silvia Napoli
Se dovessimo declinare il concetto di resilienza al femminile e farlo in maniera iconica, credo non si potrebbe prescindere dalla figura di Winnie, un personaggio teatrale che è tuttora una sorta di potentissima signora delle scene, equipaggiata com’è con tutte le sfumature di ambivalenza possibili derivanti dal suo status antinaturalistico e antipsicologico da un lato e dall’altro dalla sua essenza umana, troppo umana. Se Winnie può diventare un emblema, un simbolo, una portabandiera, un feticcio tra oggetti feticcio è proprio in virtù del suo essere Donna e dunque storicamente destinata ad essere vista come idea, allusione e illusione di qualcos’altro, allorquando il confrontarsi con l’irriducibilità e la carnalità del femminile diventa insopportabilmente angoscioso o deflagrante.
Naturalmente negli “happy days” beckettiani, che non sono la memoria di un periodo di vita circoscritto e sereno, come presto scopriamo, ma una giaculatoria, una collana di giorni che si giustappongono implacabili e sono dunque, tutti i giorni a disposizione di una vita, di una umanità, forse della Storia e del mondo, dall’inizio del Tempo mortale, abbiamo anche una plastica esercitazione sui meccanismi dell’arte scenica, sul valore della rappresentazione, sulla coazione a ripetere insita in ogni attività performativa, sul desiderio anche questo ambivalente di costruire e smontare, di vedere cosa c’è dentro, fino alla distruzione del giocattolo, proprio di ogni drammaturgo-regista, sul principio di alterità e di dialettica necessaria che a questo punto incarna l’attore.
Attore che gioca, come coerentemente suggerisce la lingua inglese su due piani:l’ammiccare al pubblico e alla sua condizione cosi fragile e inerme dinnanzi a ciò che si dispiega ai suoi sensi e il duellare incessante con la volontà vessatoria del metteur en scene.

Bene ha fatto dunque il Dipartimento delle Arti- Centro teatrale La Soffitta, a dedicare una giornata di studio e rivisitazione a Winnie, questa sconosciuta, in fondo, come tutte le questioni che sembrano provenire da qualche angolo inconscio, archetipico e dunque profondamente costitutivo di noi stessi, questioni di vita e di morte, è il caso di dire e che si possono affrontare solo sposando sapientemente metafisica e trivio, come tutti i più grandi ci hanno del resto insegnato.
Al centro di questa operazione, Laura Mariani, docente e studiosa che da tempo con acume e dedizione indaga grandi figure femminili tra Storia e Rappresentazione, conscia del valore pedagogico e formativo che questa operazione di accudimento dell’immaginario possa rivestire per le giovani generazioni e gli studiosi di nuova leva.
Un lavoro di studio e analisi della pratica teatrale coniugato con un’ottica di genere mai pedissequa, che ci trasla dalle parti dell’antropologia culturale e che Mariani tiene a sostanziare con la presenza effettiva accanto a lei di protagoniste indiscusse di quanto ci viene di volta in volta proposto.
In questo caso, Marion D’Amburgo ed Eva Robbin’s, sono state generose dispensatrici di arte ed esperienza rispetto al loro indimenticato percorso di qualche anno fa sul personaggio Winnie, grande banco di prova attoriale per ogni attrice coraggiosa che si rispetti e che sappia maneggiare una scrittura tellurica,in grado di sviluppare tra pubblico e scena alchimie e reazioni altrettanto forti nella pur apparente linearità.
Dal momento che il degno coronamento di questa giornata, non poteva che essere la verità di un allestimento, magari nuovo di zecca, anche se lungamente pensato e accarezzato, il tutto è risultato propedeutico alla rappresentazione di questo studio titolato Ancora un giorno felice! per la regia del vulcanico Marco Cavicchioli e l’interpretazione di Silvia Magnani, un’attrice di grande talento e umiltà artigiana, eterea e verace nello stesso tempo, grazie anche alle sue incursioni nel mondo della danza utili in questo caso a rendere fluida e precisa la gestualità e la tensione fisica di Winnie, un personaggio che, come in un girone dantesco, compare a noi al massimo dalla cintola in su, deve risultare tutto sommato una poupee sorretta da fili invisibili eppure trovare il modo di esprimersi al massimo delle sue possibilità e arrivare dritta all’anima dello spettatore.
La difficile scommessa viene subito dichiarata in incipit, quando veniamo introdotti al cospetto di un chioschetto malandato, un antro illuminato da una lampadina, che può essere qualunque cosa in qualunque periferia reale o metaforica del mondo con quel tanto di definitivo che la saracinesca suggerisce:in questo caso, il nostro ristretto sgabuzzino è un teatrino su cui sta riversa inanimata una bambola bionda, braccia penzoloni.
Quando la creatura si animerà, rivelerà il suo cereo indefinibile aspetto di astrazione femminile un po’ fumetto, un po’ Fellini, un po’ donna da saloon, con i riccioloni sintetici, la bocca a cuore, il corpetto sfacciatamente rosso che sbarluccica. Sicchè accanto a lei, la mitica sporta, non ha certo l’aria di borsa da spesa, ma di una di queste sacche contieni tutto, borse-mondo che potrebbero appartenere alla commessa che si porta il tacco 12 in ufficio prevedendo il pub serale, alla rockstar sbadatamente nevrotica, ad ognuno di noi, visto che sono gli oggetti ad identificarci, ormai.
Questa borsa è una coperta di Linus, un talismano per la sopravvivenza un pre-testo narrativo cui si aggrappa il personaggio Winnie felice programmaticamente come la donna di un qualsiasi claim pubblicitario e, proprio come quest’ultima, senza età e immersa in un eterno presente che non scorre, casomai si arrotola su se stesso come il nastro magnetico tanto caro al nostro Beckett. E Willie, marito flemmatico bonario, sardonico ma forse inconsapevolmente carnefice della nostra è infatti un nastro crepitante affidato alla voce dello stesso Cavicchioli, a sottolineare lo stretto rapporto tra attrice interprete e regista-dramaturgo sotteso storicamente alla messinscena di questo testo.
Ricordare per Winnie è una sorta di accessorio, come il rossetto, il cappellino, lo spazzolino di setola animale ma chissà quale animale e, dimenticare, tutto sommato un dono che ci consente di tirare avanti, chiosa tra sé lo spettatore, visto che comunque, intrappolati noi stessi senza tirare il fiato nel nostro passivo buio di sala di spettatori ammaliati dal mantra ipnotico delle ripetizioni, non possiamo fare granché per modificare la nostra condizione, esattamente come la nostra eroina suo malgrado bloccata sul posto e con una percezione sempre più limitata dell’altro da sé.
Winnie ha rinunciato in realtà da un pezzo a considerare Willie, confine, definizione e conferma della sua propria esistenza: contemporaneamente essa è il duro che inizia a giocare quando il gioco(della finzione? Teatrale)si fa duro e impervio e una donna tutta sola che chiude gli occhi, tira il fiato e si butta, contigua del tanto vale vivere di Dorothy Parker, ma anche paradossalmente un po’ Pollyanna col suo gioco della contentezza, ovvero il paradigma dell’evitare il peggio, la beatitudine del limitare i danni.
Willie in qualche modo è il passato e, riferendoci alla dimensione temporale cosi cara al grande conterraneo Joyce, Winnie è anche apparentata a Molly Bloom, figura emblematica di uno scandaloso scoprire che erotico in definitiva è il racconto, non il rapporto. Non è un caso allora che il brivido erotico di Winnie sia il contatto ricorrente con la nera rivoltella che occhieggia dalla sporta, ma poiché ogni passione è spenta questa non sarà la versione aggiornata dell’aspide di Cleopatra, ma solo un’altra possibilità di contemplazione, in giornate un po’ cosi, in cui non c’è molto da fare, perché ci sarebbe troppo da fare, ma non è umanamente possibile che fare il possibile per arrivare a sera. E sera vuol dire il campanello per dormire, una forma paradossale di sveglia, un gong da ring, che sancisce la fine di un tempo(già, ma quale?) prima di ricominciareil match, in cui in definitiva tutto funge da sparring partner per la nostra atleta dell’immutabile.
E quando viene il buio anche per noi impudichi ascoltatori, poiché questo è un radiodramma che si vede, tiriamo il fiato e ci prepariamo psicologicamente ad un imprecisato peggio. Cosa c’è di peggio della malattia, della solitudine, della vecchiezza? Dell’essere in balia di un Destino inafferrabile che ci gestisce come in un game senza esplicitazione di regole ? Adesso Winnie è riassorbita dalla serranda, di lei vediamo giusto un’idea di boccoli e gli occhi mobilissimi, incongruamente vivi, in cerca di un aggancio:altri occhi, ormai inequivocabilmente i nostri, che siamo quel qualcuno che allora si preoccupa per lei, che con il nostro hic et nunc, ratifica l’accadere: Willie può essere scomparso in tutte le possibili accezioni del termine, o essere stato anche un’allucinazione, o persino un dio distratto e sfuggente ma noi ci siamo e dunque… come direbbe Barthes, “è stato”, un altro giorno felice.
Ci saranno sempre amabili guitti come Winnie, finché ci saranno spettatori:se vivere è assurdo, morire anche di più, non resta che fare teatro con, dentro l’Assurdo. Game over e al prossimo round.

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