Luciana Castellina: "La democrazia ormai ha le ossa rotte"

29 Marzo 2018 /

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di Maurizio Di Fazio
Che avesse una grinta fuori dalla norma risultò evidente già in quel lontano 1943, lei aveva appena 14 anni, subito dopo l’8 settembre, prese di petto due ufficiali della Wehrmacht e sibilò loro: “Ve ne dovete andare”. Lei, ragazza dei Parioli, dove vive tuttora, che era andata a scuola con Anna Maria, la figlia del duce, con cui giocava a Villa Torlonia. E poi l’incontro fatale col comunismo, un amore a prima vista, destinato a divampare per sempre. L’iscrizione al partito nel 1947 e l’apprendistato proletario nelle borgate. Botteghe Oscure e il Liceo Tasso, la Fgci e la laurea in legge alla Sapienza. Le fabbriche, la classe operaia, la lotta di classe, la libertà che “o è sostanziale, condivisa, di tutti o è una roba meschina”.
La sua bellezza stentorea, naturale, smagliante, che mandava in estasi i compagni più del migliore discorso del Migliore Togliatti e che dura ancora oggi, che di anni ne ha quasi 89 ma spande fascino ed energia come se ne avesse 30 o 40. Il matrimonio con Alfredo Reichlin e i viaggi senza requie nell’Unione Sovietica, nella Germania dell’Est, nelle nazioni in effervescenza rivoluzionaria o sotto tiro di un colpo di Stato.
La politica e il giornalismo caparbiamente in prima linea. La fondazione, insieme a Lucio Magri, Valentino Parlato, Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli, del Manifesto. Le critiche da sinistra al Pci a tinte troppo brezneviane e la loro radiazione dal partito nel 1969. I libri, le esperienze da parlamentare ed eurodeputata nel Pdup e nella nascente Rifondazione comunista, i 37 voti presi nella prima elezione del presidente della Repubblica nel 2015.

L’incontro con Luciana Castellina, donna straordinaria e intellettuale irriducibile, tra le ultime grandi autorità morali e civili di sinistra, a Pescara, è a margine di un incontro organizzato dall’Arci sui cent’anni della rivoluzione d’ottobre. Colpisce la sua affabilità, la sua modernità, il suo fascino incrollabile, la sua modestia. Il suo perpetuo desiderio di scommettere, a mezzo secolo dal Sessantotto, sulla politica, sulla felicità a venire, su un qualche Sol dell’Avvenire. Il suo portare, tuttora, ineluttabilmente, “il Vietnam dentro”.
Cara Luciana, la sinistra è uscita a pezzi da queste elezioni. Se l’aspettava?
“Sì, ma le cose sono andate peggio della mia immaginazione. Ma non è la sinistra che è andata in frantumi: a esserne uscita con le ossa rotte è la democrazia, che non è comunicazione e mera ricerca del consenso, come fosse l’auditel della tv, guardo se c’è un trenta per cento contro gli immigrati e allora prendo quella linea (l’accenno a Di Maio è del tutto casuale…). La politica dovrebbe essere costruzione di senso, di un’idea, un progetto di società, e dovrebbe prevedere la partecipazione della gente perché l’orientamento dell’elettorato si può fare solo attraverso un vero confronto, un dibattito, una selezione delle persone che ti andranno poi a rappresentare sulla base delle esperienze che hanno maturato sul territorio. È lì che si costruisce la fiducia, la capacità di rappresentanza e tutto questo, se manca, conduce a risultati perniciosi. La democrazia fondata solo su un voto ogni cinque anni non è vera democrazia. È una specie di farsa. Il cammino è lungo, ma resto un’ottimista della volontà”.
Il Pd può riacquistare forza, secondo lei? E se sì, come?
“La sinistra ha sofferto appunto l’equivoco di un partito, quello democratico, che si definiva di sinistra pur praticando da tanto tempo una politica di destra. Questo ha finito per confondere la testa di tutti”.
Si aspettava anche il flop di Liberi e Uguali?
“Ho pensato che Liberi e Uguali fosse un soggetto politico su cui puntare perché il fatto che l’intero gruppo dirigente del vecchio partito comunista, la cosiddetta Ditta (responsabile, certo, di aver aperto la strada a Renzi…) fuoriuscisse e criticasse tutto il lavoro di governo portato avanti dal Pd, rappresentava un fatto importante e radicale, una scossa, che invitava alla riflessione critica. Inoltre il programma di Leu era l’esatto opposto di quello del partito democratico: sul Jobs Act, sugli immigrati, sulla scuola, su tutto. Pensavo: il vecchio corpo del fu Pci potrebbe svegliarsi. E invece no, mi sono sbagliata, perché quel corpo è ormai defunto e in ogni caso non ha avuto più fiducia, ha votato per i 5 Stelle perché bisognava comunque dare una botta al vecchio sistema”.
C’è qualche nuovo politico italiano di sinistra su cui scommetterebbe per il futuro?
“Già se parliamo di un leader chiamato a riscattare la sinistra, significa che non è di sinistra. Il leaderismo è populismo, schivatelo se solo si para all’orizzonte. Certo, nel passato ci sono stati dirigenti comunisti di gran prestigio, ma divenivano tali per la loro capacità di edificare una soggettività politica di massa, non perché andavano in televisione travestiti da leader popolari”.
Il Renzismo è morto e sepolto, o può tornare? È stato una “malattia infantile del post-comunismo”?
“Il renzismo non è arrivato a caso. È una tendenza comune frutto della globalizzazione, della retorica secondo la quale nel mondo globale bisogna fare in fretta, le decisioni non possono essere prese democraticamente, basta un voto ogni cinque anni. Renzi, col suo cotè provinciale di Rignano, in questo è simile a un Macron che ha Parigi e la Francia intera a suo appannaggio. Tant’è che la parola che domina ovunque è governance, che non vuol dire “governo” (che implicherebbe la sovranità popolare) ma attiene ai consigli di amministrazione delle banche e delle imprese. Renzi è l’incarnazione un po’ folcloristica di questa tendenza generale”.
Mala tempora currunt, quindi, anche per la sinistra europea?
“La Die Link tedesca è forse la realtà più interessante. Così come Podemos in Spagna (con tutte le sue contraddizioni), certamente i socialisti portoghesi, Corbyn in Gran Bretagna, e poi Papa Francesco, un rivoluzionario. È talmente alto il tasso di diseguaglianza, di barbarie nel mondo che è naturale comincino a crescere degli anticorpi, anche se in maniera molto diversificata. È difficile quindi immaginare, oggi, un partito unico europeo di sinistra”.
E cosa mi dice del mercato del lavoro contemporaneo? Si stava meglio quando si stava peggio, col fordismo?
“È cambiato tutto, la globalizzazione ha prodotto effetti dissennati. Non si può consentire che il capitale circoli liberamente senza adottare una fiscalità comune, un comune diritto sociale. Le delocalizzazioni partono da qui, e la prima a farle è stata la Fiat. Il lavoro è profondamente cambiato. Si è frantumato, atomizzato. Le trasformazioni tecnologiche hanno reso possibili le possibilità straordinarie preconizzate da Carlo Marx. Siamo arrivati a un punto in cui il lavoro umano conta sempre di meno per via della tecnologia, ma questo non sta generando una liberazione dal lavoro come auspicava il filosofo tedesco. Tutt’altro. La disoccupazione, e in senso catastrofico, diventa lo standard. Le diseguaglianze tra pochi ricchi e una moltitudine di disperati si acuiscono. Se non poniamo subito rimedi si spalancheranno le porte di un medioevo di ritorno. La sinistra dovrebbe affrontare con urgenza il problema della ricomposizione della forza lavoro, di un soggetto in grado di lottare collettivamente”.
Usa i social network? Possono essere strumenti di emancipazione, se non di rivoluzione?
“Possono essere una cosa utilissima, quando hai una rete di conoscenze al di fuori e ti limiti a usarli per i tuoi progetti. Ma se credi che possano sostituire la socialità vera, vai al naufragio. C’è questa grande illusione che Internet sottenda un mondo di libertà. Non è vero. Il web è governato dai più ricchi, dai più forti. Tutti online possono parlare, ma a essere ascoltati sono solo i più potenti”.
Lei è stata una donna molto corteggiata, in un contesto (il partito comunista) dominato dagli uomini. Ha seguito le battaglie del movimento #Metoo?
“Però nel Pci, negli anni cinquanta, erano iscritte 500 mila donne. Ben venga qualsiasi protesta da parte di noi donne. Ma il femminismo non è dichiarare “gli uomini sono cattivi”. Significa rimettere in discussione un sistema eretto storicamente dagli uomini, e non dalle donne. Un processo un po’ più complicato”.
Cosa resta del comunismo, del suo essere comunista?
“La rivoluzione francese ha creato più libertà, ma senza uguaglianza. Quella sovietica per realizzare l’eguaglianza ha tolto di mezzo la libertà. Siamo ancora là, in mezzo al guado. Il problema è irrisolto. Ma penso che un sistema diseguale e iniquo come il nostro non possa durare a lungo”.
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale L’Espresso il 23 marzo 2018

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