di Tomaso Montanari
«Quando penso alle province del Lazio e ai suoi borghi, penso ad accogliere più turismo, che rilanci l’economia locale, e meno migranti, che invece pesano sull’economia locale. Non è questione di destra o di sinistra, ma di #buonsenso».
Questa dichiarazione di Roberta Lombardi, candidata 5 Stelle alla presidenza del Lazio, è un sintomo da non trascurare. Di quale “buon senso” si parla? Di quel senso comune, per nulla buono, per cui dei migranti non si ragiona come di esseri umani, ma come di numeri o come di minacce (la “bomba sociale”). Lo stesso “buon senso” per cui bisognerebbe «aiutarli a casa loro» (e questo l’ha scritto Matteo Renzi, dimenticando l’articolo 10 della Costituzione, che dice che l’Italia è casa di tutti coloro che non hanno i nostri stessi diritti), o sostenere mamme e famiglie italiane, «se uno vuole continuare la nostra razza» (Patrizia Prestipino, Pd).
Non cito le innumerevoli frasi di esponenti della Lega, Fratelli d’Italia e organizzazioni fasciste perché ciò che mi interessa stigmatizzare è la penetrazione di idee di fatto razziste in quello che appunto si presenta come il senso comune. È lo slittamento generale a destra, addirittura l’egemonia di questo non-pensiero, il principale avversario di ogni prospettiva democratica. Luigi Manconi e Federica Resta hanno recentemente argomentato (nel libro Non sono razzista, ma…, Feltrinelli 2017) circa i nessi tra questa indifferenza morale verso i migranti e quella verso gli ebrei, al tempo dell’Olocausto: «L’indifferenza della vita di ogni singolo in un mondo la cui legge era disinteresse per l’altro e vantaggio individuale universale» (T. Adorno).
Nel caso di Lombardi la dichiarazione ha anche un’altra chiave di lettura. Sarebbe di “buon senso” immaginare i borghi spopolati delle aree interne come grandi alberghi diffusi per turisti. Questa idea rischia di dare la mazzata finale a una parte del Paese in cui è ancora possibile coltivare uno stile di vita non del tutto appiattito sull’alienazione morale delle metropoli.
Come spiega Vito Teti in Quel che resta. L’Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni (Donzelli 2017) è proprio questa Italia minore e sofferente che può ridare senso e sapore all’Italia apparentemente vincente. A patto che non la trasformiamo in un gigantesco parco a tema per turisti, ma la aiutiamo a rifarsi tessuto civile: anche con l’integrazione di nuovi italiani, qualunque sia il colore della loro pelle.
«Ripopoliamo le aree spopolate dell’Appennino con immigrati e rifugiati», ha proposto il “paesologo” Franco Arminio. «Nella città vecchia il popolo nuovo», ha detto l’urbanista Ilaria Agostini, chiedendo che i centri storici spopolati delle città d’arte siano luoghi di integrazione. E i concreti esempi positivi non mancano, a partire da quello notissimo di Riace.
Investire in questa direzione significa, sul medio e lungo periodo, favorire il “progresso materiale e spirituale della società” (articolo 4 della Costituzione).
Con quali soldi? È stato calcolato che con i sei miliardi di euro che l’Ue ha dato alla Turchia di Erdogan per bloccare i rifugiati, si sarebbero potuti accogliere e integrare tre milioni di migranti. Questo è buon senso. Così come è buon senso trovare intollerabile che i migranti affoghino nel mare in cui facciamo il bagno d’estate, o che siano chiusi in campi di concentramento pagati dai nostri governi. E questa orrenda campagna elettorale ha un bisogno di trovare un senso. Possibilmente buono.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano La Repubblica il 24 febbraio 2018