di Carlo Galli
La nostra Costituzione ricapitola in sé la radice umanistica della modernità non solo per l’assetto istituzionale dei poteri, non solo per la previsione di uguaglianza e di giustizia che l’attraversa e l’orienta, ma anche perché fonda sul lavoro il vivere libero della collettività. Ciò significa che la cittadinanza non è dovuta alla nascita, al censo, alla proprietà, alla religione, alla razza, all’appartenenza a un partito; il che è già importantissimo.
Ma significa anche che lo schema moderno del contratto sociale è sì fondamentale per affermare che l’ordine politico è costituito da atti di volontà razionale di tutti e di ciascuno – e non su un principio d’autorità -; e significa anche che la sua astrattezza deve essere riempita da una sostanza storica vitale, da un agire permanente che dia corpo ai soggetti stessi, che li metta in relazione costruttiva e duratura. Quell’agire, quella sostanza, quella concretezza è il lavoro, che è quindi tanto un fatto privato, attraverso il quale legittimamente si persegue un utile, quanto un fatto pubblico, il tessuto esistenziale e dinamico di quella società che si organizza politicamente in istituzioni. E queste sono democratiche non solo per il loro assetto e per la loro finalità, ma anche perché hanno la loro radice in un’umanità attiva.
Il testo costituzionale ci dice così che la cittadinanza democratica non è solo formale: che la politica non può essere solo la dimensione astratta del cittadino; ma che anzi è fatta da soggetti, da persone integrali, che esistono concretamente in relazione produttiva, che attraverso il lavoro producono letteralmente se stessi, e la società. Democrazia è includere politicamente secondo regole costituzionali questa sostanza storica reale prodotta individualmente e collettivamente.
Insomma, dire che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro significa che il lavoro è il luogo della formazione del sé, della società, dell’ordine politico. Dunque, la Costituzione dà un’indicazione contro l’alienazione fra uomo e cittadino, e inoltre, anche se non contiene un esplicito progetto di liberazione dalla reificazione capitalistica, si orienta certamente contro lo sfruttamento e la degradazione, per la liberazione dal bisogno e dalla umiliazione della dignità personale. Infatti, la Costituzione non vede il lavoro in modo pacifico, irenico: è sì costitutivo della democrazia, ma è anche un campo di tensioni e di contraddizioni, di lotte e di conflitti per l’emancipazione.
Se ci si chiede come si è arrivati – con il concorso di culture politiche anche divergenti, come quella liberale, quella democratica, quella socialista, quella cattolica, quella comunista – a questa centralità umana, sociale, politica e costituzionale del lavoro, si deve osservare che il lavoro è in realtà l’energia centrale delle cinque grandi invenzioni della modernità: il soggetto, lo Stato, il capitalismo, il partito e la tecnoscienza. Solo nella modernità, infatti, si istituisce un nesso fra lavoro e libertà, fra lavoro e politica: nella cultura antica la politica ha a che fare con la libertà, la filosofia, la scienza, la guerra e la gloria, mentre il lavoro appartiene al regno della necessità. Nella tradizione cristiana, poi, il lavoro è punizione del peccato, come è chiaro nella maledizione divina lanciata su Adamo e Eva, cacciati dall’Eden.
È con l’età moderna – per molte vie, religiose (la Riforma), economiche (l’accumulazione primitiva attraverso la mercatura e le enclosures), politiche (la formazione, dentro lo Stato nascente, di un’alleanza d’interessi fra borghesia e monarchia) – che il “soggetto-che-lavora” diventa per la prima volta il fondamento, il cuore, il cardine della società e della politica. Questa è la cifra fondamentale della modernità: il lavoro passa da pura oggettività a essere costitutivo della soggettività e della pubblicità (della politica). All’interno di questo paradigma generale l’età moderna presenta molte e significative differenziazioni.
Infatti, del lavoro sono state date interpretazioni neutrali, tendenti a vederlo come un’attività universalmente umana – che esige la politica statale per sussistere, come in Hobbes, o che la fonda, come in Locke -; o interpretazioni dialettiche, che ne pongono in rilievo il lato di contraddizione – il fatto che nelle relazioni economiche capitalistiche il soggetto mentre produce se stesso si reifica, diviene cosa, oppure che il lavoro oltre a unire divide la società in parti -; o tecniche, che sottolineano l’importanza crescente del fattore meccanico (o elettronico) che da strumento diviene protagonista del mondo del lavoro, scalzando impersonalmente la centralità del soggetto.
L’equilibrio tra i fattori che il lavoro determina (soggetto, Stato, capitalismo, tecnica, partito) e il freno (non definitivo) alle contraddizioni che il lavoro ospita in sé (di essere, nel contesto capitalistico che si è via via affermato come esclusivo, oltre che costitutivo anche divisivo e reificante, di essere soggettivo ma anche tecnico-oggettivo) si è verificato, in modalità diverse da Paese a Paese, con il cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, ovvero con l’invenzione dello Stato sociale, tra la metà e l’ultimo quarto del XX secolo, nel mondo occidentale.
Si è trattato dell’alleanza fra il capitalismo fordista e i partiti democratici di massa, rappresentanti del lavoro; un’alleanza garantita dalla politica, che ha operato inclusivamente (per accogliere all’interno delle istituzioni, finalmente rese democratiche, le istanze popolari del lavoro) e progressivamente (per stimolare lo sviluppo economico e tecnico del Paese). Il “trentennio glorioso”, pur con tutte le sue manchevolezze, è stato reso possibile da fattori storici – l’ordine di Bretton Wood, il bipolarismo mondiale, il ciclo economico espansivo – ma anche da fattori politici, tra cui, in Italia, senza dubbio l’impianto progressivo della Costituzione che ricapitola l’essenza della modernità, e da partiti che in vario modo hanno rappresentato politicamente il lavoro.
La fine di questo impianto politico-economico, nella seconda metà degli Anni Settanta del Novecento, si è consumata nella “stagflazione”, una lunga crisi di valorizzazione del capitale che è stata superata da nuove forme del capitalismo (il toyotismo, la finanziarizzazione dell’economia, la dislocazione produttiva fuori d’Europa), definite complessivamente “neoliberismo”; la cui base materiale sta nella rivoluzione elettronica (che consente al sistema economico di passare da una configurazione ad alta intensità di lavoro ad un’altra, che richiede una bassa intensità di lavoro), la cui base politica sta nella lotta al lavoro organizzato, ai partiti di massa e allo Stato sociale, e il cui assunto fondamentale, di origine marginalista (cioè derivato dalla scuola economica austriaca che ha criticato la teoria del valore-lavoro, abbracciata tanto dai classici dell’economia politica quanto dal marxismo), è che il soggetto non si forma attraverso il lavoro, che il lavoro non è attraversato da contraddizioni ma solo da competizione, e che tutta l’economia è espressione delle scelte di soggetti capaci di massimizzare le proprie preferenze con decisioni razionali.
Il lavoro non è più centrale nella società: anzi, questa o non esiste o è solo l’interazione utilitaristica fra individuo singoli (quello che Hegel chiamava il sistema dei bisogni). In generale, per il neoliberismo il lavoro è una faccenda privata, nel bene o nel male, nel successo o nella sconfitta; e ovviamente il soggetto da centrale, quale si pretende, si rivela ben presto marginalizzato, indebolito, isolato – la distruzione dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni) è momento centrale della strategia neoliberista -: centrale sono, semmai, l’esigenza di produzione e di riproduzione del capitalismo, le sue compatibilità sistemiche.
E lo Stato deve assecondare le logiche del capitale con riforme che smantellino lo Stato sociale, che limitino i diritti del lavoro – quei diritti attraverso i quali si riconosce che il lavoro ha una dimensione pubblica, materialmente costitutiva della società e della politica, e che è l’alfa e l’omega della vita associata -: il lavoro deve adattarsi alle esigenze del sistema economico e quindi deve essere privato di ogni finalità umanistica e creativa, e riconoscersi come una prestazione comandata da altri, subordinata anche dal punto di vista del salario.
In particolare, il lavoro deve assoggettarsi all’esigenza di fluidità, di mobilità, di occasionalità, di un sistema economico che non ha più il proprio centro nella fabbrica fordista ma che si presenta come un insieme di reti in continuo riassetto: nessuna rigidità, nessuno Statuto dei lavoratori, deve ostacolare la generale mobilitazione del lavoro. La variante ordoliberista di questa ideologia, che sta alla base dell’euro, enfatizza la decisione politica fondamentale che blinda il sistema capitalistico e la sua interna mobilità, e che deve essere sempre rinnovata, per esorcizzare lo spettro del formarsi di monopoli, ma anche del conflitto, dell’estremismo, che non devono nascere nel seno di una società che viene pensata come coincidente con i rapporti economici dati: questa mobilitazione del lavoro – non il lavoro in quanto tale come attività di costruzione del soggetto – deve essere politicamente garantita come essenza dell’ordine sociale e politico. Lo spazio pubblico non è occupato dal lavoro – scarso, marginalizzato, subalterno, privatizzato, spezzettato giuridicamente, non garantito, sottopagato – ma dal capitale.
Lavoro e politica restano in relazione, quindi, com’è inevitabile: ma si tratta di un lavoro privo di diritti e di dimensione umanistica, e di una politica che non cerca l’equilibrio fra capitalisti e lavoratori, ma sottomette ai primi i secondi. Il lavoro plasma ancora la vita del singolo e la forma della società e della politica, ma come angosciante mancanza, o come rassegnata adeguazione alle leggi del mercato e al loro dominio.
Mentre in passato quel dominio veniva concettualizzato in narrazioni che mettevano al centro il soggetto e la sua capacità di liberarsi attraverso il lavoro, di liberare il lavoro attraverso le contraddizioni del lavoro, oggi questo non avviene: del lavoro non si dice più che è centrale, o che lo dovrebbe/potrebbe essere. Al più si dice che la sua attuale mancanza è problema, che però la politica si guarda bene dal provare ad affrontare direttamente, con investimenti pubblici e con politiche normative adeguate, affidandone piuttosto la soluzione al mercato.
Pensare al lavoro come problema, in questo modo, significa ancora pensarlo come funzionale ad altro: significa pensare primariamente alla ripresa dell’economia, dentro la quale, in ogni caso, non si dice mai che il lavoro dovrà essere centrale.
Riportare il lavoro alla sua centralità è un’opzione politica, e una sfida di prim’ordine; forse non vi è una strategia privilegiata per giungere a questo fine, ma certo una delle vie possibili, la più direttamente praticabile dal potere democratico è l’intervento legislativo esplicito, volto – come quello che Piergiovanni Alleva qui autorevolmente ci presenta – a ridurre il numero delle fattispecie giuridiche del lavoro, oggi dilatate secondo una evidente strategia di divide et impera, e a ripristinare i diritti (e quindi le rigidità) che alla tutela democratica del lavoro si associano, perché esso non sia in balia delle leggi del mercato. Rispetto alle quali le leggi della Repubblica fondata sul lavoro è giusto operino una inversione di priorità, promuovendo l’umanesimo del lavoro, la sua sicurezza, la sua dignità. Una risposta sensata, e radicale, al rischio di distruzione del tessuto sociale, e della stessa democrazia, che la mortificazione del lavoro produce.
Alla crisi provocata dalle ricette della destra economica si offre quindi una risposta una volta tanto non di destra politica, ma una risposta strutturalmente democratica e costituzionale. È un passo importante, lungo la strada giusta.
Questo testo è l’introduzione alla proposta di legge Restituire diritti e dignità ai lavoratori, pubblicata da pubblicazione curata da Maggioli Editore. Si trova sul sito di Piergiovanni Alleva