di Loris Campetti
Mi sarebbe piaciuto rivedere la mia vecchia casa di via Costa 13, sotto il Palazzo del Mutilato dove si facevano le feste di carnevale degli studenti; e poi passare davanti al liceo Scientifico Galileo Galilei dove ho studiato, fare due vasche al Corso, luogo storicamente dedicato allo struscio cittadino. Magari un aperitivo da Venanzetti, che ora chissà come si chiama, o in piazza della Libertà. E invece no, verboten, proibito, la città è blindata, le scuole chiuse, i mezzi pubblici fermi nei depositi, i negozi serrati, alcuni con le vetrate protette da pannelli di compensato.
Devono essere fermati fuori dalle Mura, quelle “da sole” che guardano la montagna e quelle “di tramontana” affacciate sul mare, quei selvaggi, quegli alieni, i maleducati che invece di rispettare lo sconcerto di una popolazione buona tranquilla e ospitale travolta dal sangue di Pamela e poi da quello di Wilson, Omar, Jenifer, Gideon, Mahamadou, Festus (pensa tu, il sangue di tutti, bianchi e neri, è dello stesso colore), vogliono urlare contro fascismo e razzismo, contro Salvini o addirittura contro il democratico ministro Minniti o l’altrettanto campione di democrazia sindaco Carancini.
No pasaran, la “civitas Mariae” dev’essere salvata dall’invasione dei barbari. Ogni valico, ogni apertura delle mura, ogni pertugio è bloccato da poliziotti, carabinieri, ci sono persino le camionette messe di traverso per esempio ai “Cancelli” – antica porta d’accesso a Macerata – dirimpetto alla statua di un incredulo Eroe dei mondi.
Fuori dalle Mura i corpi estranei. Ma io qui sono nato, questo è il mio natio borgo selvaggio, qui ho vissuto infanzia e adolescenza, qui ho studiato, posso passare? Non puoi, verboten, “e non fotografarci stronzo”. Raus. Sembra Genova in quei maledetti giorni di luglio del 2001, c’è persino l’elicottero che ci frulla i capelli, mancano solo le griglie metalliche ma non ce n’è bisogno, ci sono abbastanza militi a tutelare la città, a salvarla da quelli come me, o come Gino Strada o i ragazzi del liceo o dei centri sociali, o come Staino o Vauro o Sofri o Civati o Fratoianni o quelli che vogliono dare il “Potere al popolo”, o come i partigiani disobbedienti tipo Lidia Menapace, un’adolescente di 94 anni che regge uno striscione antirazzista.
No pasaran, ma nessuno di questi delinquenti prova a passare, forse solo a un patetico nostalgico come me piacerebbe arrampicarmi fino in piazza, la piazza grande a cui illustri quanto illusi antenati avevano dato il nome di “Libertà”.
Giro giro tondo, tre chilometri di mura, si arriva là da dove si è partiti. Solo i negozi per stranieri frequentati da italiani appassionati di kebab e pizzerie che servono al taglio quadrati di margherita e quattro stagioni hanno sfidato il sindaco del quieto vivere che teme gli antifascisti come i fascisti, e hanno tirato su le serrande invece di blindarle. Tutti a casa, chiede il sindaco e con lui Minniti e il Pd, attenti agli opposti estremismi, il dolore chiede silenzio, sembra il silenzio della ragione.
Ma hanno un limite kebabari e pizzaroli: non hanno la toilette. Venti o forse trentamila pericolosi provocatori, bambini e quasi centenari compresi, bianchi e tutti quei neri arrivati dalle Marche, dall’Emilia, da Caserta, dopo tre ore di marcia intorno a Troia e chissà quante ore in pullman per venire a Troia a dire no alla violenza di ogni colore e no al razzismo, non pensano a nascondersi dentro un cavallo di legno per espugnare la città, pensano piuttosto a trovare un cesso che non c’è neanche nella versione miraggio. C’è però un passaparola, laggiù prima del monumento ai caduti dove il fascioleghista Luca Traini si è fatto arrestare avvolto nel tricolore dopo il pogrom razzista c’è un bar aperto.
Già, ma la coda arriva fin quassù al monumento a Garibaldi che guarda incredulo il blindato e i militari a guardia dei Cancelli. E i pullman per tutt’Italia stanno per partire, non c’è tempo, si aspetterà l’autogrill. Il mitico sindaco democratico che ha sparso paura a piene mani tra i suoi cittadini e ha fatto chiudere i bar e tentato di far prigionieri ai domiciliari gli stessi maceratesi, neanche un cesso chimico ha predisposto, forse sperando di fotografare nascostamente un selvaggio impegnato a liberarsi dalle sofferenze contro un albero dei giardini Diaz e brontolare: ecco cosa sono, maleducati selvaggi.
Ma un po’ di cittadini e cittadine hanno abbandonato i domiciliari, sono usciti di casa e si sono uniti a ventimila o forse trentamila esponenti della razza umana, qualcuno invece è rimasto a casa ma ha messo uno striscione sul terrazzo dalle parti dello Sferisterio, “no racism”. Mescolati agli stranieri di Roma, di Napoli e della Nigeria incontro volti noti, ex compagni di scuola o di militanza politica, il professore, il chitarrista, il bancario, l’ex sottosegretario.
Macerata c’è, almeno un po’ di Macerata c’è, ci sono i giovanissimi in testa al corteo che approfittando delle scuole chiuse dal sindaco scandiscono slogan contro il sindaco nelle strade della loro “piccola città/ bastardo posto”. Tanta Fiom, Emergency, tanta Arci e tanta Anpi nonostante tutto, mescolati con i centri sociali. Non si vede la Cgil, quella maceratese si è distinta nella ignobile battaglia per far vietare o almeno fallire la manifestazione. A Macerata è arrivata gente normale, gente pulita, magari disobbedienti tesserati alla Cgil. Chi ha una bandiera improbabile del passato remoto con falci martelli e stelle, chi è tutto verde e chi viola, chi è senza bandiere e chi senza voce, chi è dei Cobas e chi è orgogliosamente lesbica.
Meglio se a essere rimasti senza voce fossero stati quei quattro nordestini fuoriposto o fuoriluogo che dir si voglia che hanno provato inutilmente a intonare una cover inaccettabile della Carrà “ma che belle son le foibe da Trieste in giù”. Quasi nessuno li sente, chi li sente non raccoglie, anzi no, raccolgono i media che ci costruiscono sopra un castello di sabbia per tentare di sotterrare o almeno ridimensionare una grande prova di civiltà, solidarietà, antirazzismo, A Macerata, Italia.
La città è salva, si può consolare il sindaco, quello che il cuore ce l’aveva nel corteo, ma il cervello, la ragione, no. E’ questo il problema del Pd: cuore e cervello viaggiano separati. Separati anche dal paese democratico. I pullman ripartono, domani è un altro giorno. Dovremo ricordarci di chi a Macerata c’era, e di chi era assente.