di Dario Borso
Nell’ultimo annale dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza pubblicato dalla FrancoAngeli, Ruggero Zangrandi: un viaggio nel Novecento, spicca un contributo di Luca La Rovere che, esaminando un diario inedito steso da Zangrandi durante l’estate ’43, conclude la sua lunga ricerca iniziata nel 2002 con Storia dei Gruppi universitari fascisti e proseguita nel 2008 con L’eredità del fascismo, Bollati Boringhieri entrambi.
Siccome infatti nel diario si propugna non già un passaggio al regime democratico, ma un’evoluzione totalitaria del fascismo in crisi[1], ne viene che: a) falso è l’assunto-base del Lungo viaggio, l’autobiografia politica pubblicata da Einaudi nel 1947 dove Zangrandi sosteneva di essere stato dal ’36 antifascista attivo; b) sospetta è la corposa appendice di “documenti e testimonianze” alla seconda edizione Feltrinelli del 1962 (rititolata Il lungo viaggio attraverso il fascismo e sottotitolata Contributi per la storia di una generazione), dove Zangrandi portava a conferma esperienze cospirative analoghe a quelle del suo Partito socialista rivoluzionario.
La prima edizione lasciò perplessi molti, ma non Togliatti che la elogiò con l’intento di “amnistiare” una generazione di giovani intellettuali e recuperarli al Pci; la seconda fu accolta favorevolmente dai più, al punto da divenire in breve tempo se non una bibbia, il paradigma con cui inquadrare un passaggio cruciale della storia d’Italia.
Fuori dal coro si tenne Carlo Dionisotti, ex-azionista e illustre storico della letteratura, il quale in una recensione uscita nel n. di ottobre 192 di Resistenza. Giustizia e libertà, premesso che “non stupisce che il libro, imbottito di aneddoti e di nomi, abbia avuto successo, ma stupisce che la tesi centrale sia stata presa sul serio da persone serie”, tuonò che col pretesto di riabilitare una generazione Zangrandi, “cliente e famulo di ministri e alti gerarchi, collaboratore assiduo del Popolo d’Italia [il quotidiano di Mussolini] e di altri giornali fascisti a catena, vorrebbe ora farci credere alla illibatezza e alle benemerenze antifasciste della piccola banda romana, cui egli appartenne, dei delfini ambiziosi e impazienti ai quali il precipitare degli eventi e il crollo del regime fascista tolse di ascendere per via gerarchica ai meritati onori”.
La stroncatura di Dionisotti rilevava poi come “dell’attività della banda e del partito non pare che altro documento sussista se non questo postumo verboso caotico e incredibile resoconto”, e ridicolizzava infine le tre “azioni” più paradossali lì millantate: una tentata visita in orbace a Benedetto Croce, la mancata gambizzazione di uno squadrista, il fantomatico incontro con l’unico operaio disponibile.
Difettando di documentazione ossia di prove, il “resoconto” poteva venire confutato solo logicamente, e così ha fatto pure La Rovere riguardo a una quarta “azione” (tentato arruolamento della banda in Spagna onde passare poi dai franchisti ai repubblicani). Non vagliata è però rimasta finora l’appendice, che riportando “documenti e testimonianze” altrui è in sé passibile di verifica empirica; ci sto provando io, come si vede dal seguente esempio.
A fine 1960 la rivista Il paradosso chiuse un’inchiesta sulla gioventù sotto il fascismo con una risposta scritta di Zangrandi, dov’egli preannunciava l’appendice ribadendo che il travaglio personale narrato nel Lungo viaggio riguardava “quasi tutti i giovani fascisti” i quali, schierati da sempre contro “i capitalisti, i vecchi ceti conservatori in genere, la monarchia, il clero, la burocrazia statale e la stessa nuova burocrazia fascista”, pian piano compresero “che erano sempre stati antifascisti, e che si erano ritenuti fascisti – e comportati come tali – solo in virtù di un malinteso”.
Lo stesso numero della rivista conteneva una risposta di Italo Calvino, il quale così descrisse il suo percorso di maturazione durante il biennio ’42-’43: “Scalfari frequentava l’Università a Roma e nelle vacanze tornava a Sanremo: si può dire che la nostra vita ‘politica’ cominciò con le discussioni con Eugenio, prima appartenente ai gruppi di fronda del Guf, poi espulso dal Guf e cospiratore in gruppi dalle ideologie allora molto confuse. Una volta mi scrisse chiedendomi l’adesione a un partito in formazione, per il quale era stato proposto il nome di Partito aristocratico-sociale. Così, a poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino”, fino a quando “con Scalfari e gli altri amici, nell’estate del 25 luglio ’43, trovammo come piattaforma comune quella di dirci ‘liberali’ (fondamentale fu la lettura della Storia del liberalismo di De Ruggiero), il che era una cosa altrettanto vaga come il mio anarchismo. Seduti in cerchio su una grande pietra piatta in un torrente vicino al mio podere ci riunimmo a fondare il Mul (Movimento universitario liberale)”.
Quindici mesi dopo, Zangrandi nell’appendice menziona “un gruppo di universitari ‘fascisti’ che prese a muoversi all’interno del Guf di Roma, anzi del suo organo ufficiale Roma fascista, […] da posizioni ‘fasciste’ per giungere a conclusioni non socialisteggianti, come di solito, ma liberali: più esattamente, liberali di sinistra (oggi, si direbbe radicali). Ne furono infatti esponenti Eugenio Scalfari, Enzo Forcella” e altri; la cosa “importante e – dato l’indirizzo ideologico – singolare, fu che il nucleo originario sentì la necessità di procedere a una rigorosa organizzazione cospirativa, articolata in cellule di 10-15 elementi che venivano tenuti all’oscuro, secondo le regole proprie di ogni maturo gruppo clandestino, circa il gruppo dirigente, composto da una ventina di giovani”. E Zangrandi prosegue: “Legata all’esperienza di questo gruppo, in particolare a quella di Eugenio Scalfari, che aveva compiuto gli studi liceali a Sanremo, è l’esperienza di Italo Calvino e del suo gruppo sanremese. […] Il suo incontro ‘liceale’ con Scalfari, legato alla realtà fascista, sia pure su posizioni di fronda (tanto che era stato espulso dal Guf già nel ’42), indusse Calvino a uscire da posizioni di pensiero e di ricerca ideale per ricercare un’attività pratica, in mezzo agli uomini, contro il fascismo”. Qui Zangrandi inserisce il brano di Calvino sul Mul e conclude: “Calvino fu quasi risucchiato, poco più che ventenne, nella guerra partigiana, nella quale si comportò da valoroso e nel corso della quale aderì al Pci, insieme a molti suoi compagni del Mul sanremese”[2].
La versione di Zangrandi sull’antifascismo clandestino dei gufini romani (già in sé paradossale: strutturati a compartimenti stagni come il Msr, strutturato a sua volta come il Pci…) cominciò a traballare quando Enzo Forcella, critico letterario di Roma fascista fino al 15 luglio ’43, in un capitolo della sua Celebrazione di un trentennio (Einaudi 1974) titolato Contributi alla biografia di una generazione con evidente richiamo al sottotitolo zangrandiano, narrò di come nel novembre ’42, tornato dal fronte jugoslavo, si recò in redazione dove “Indrio, Scalfari e gli altri ‘politici’ stavano scrivendo gli articoli pieni di allusioni che, negli anni successivi, sarebbero stati considerati gli incunaboli del dissenso”, ma aggiunse che allora e in seguito tanto dissenso (per tacere di cellule) non vide, anzi: “non ci ponevamo neppure il problema dell’antifascismo”.
Il direttore Ugo Indrio nel suo Da “Roma Fascista” al “Corriere della sera” (Ed. Lavoro 1986) confermò Forcella quanto all’assenza di antifascismo in redazione e smentì Zangrandi quanto all’espulsione dal Guf di Scalfari, rivelando però che uno screzio ci fu nel dicembre ’42, quando Scalfari venne redarguito da Farinacci per L’ora del partito. Clima nuovo, un articolo irrispettoso dei vecchi leader squadristi perché spingeva all’estremo la tesi del ricambio generazionale[3].
Sulla scia di Indrio, Renzo De Felice in Mussolini l’alleato (Einaudi 1990) esibì una nota riguardante l’articolo scalfariano inviata l’11 gennaio ’43 dal segretario nazionale del Pnf Vidussoni al duce stesso, e rubricò l’intemperanza di Scalfari sotto quel “nuovo fascismo” giovanile che si appellava alle origini e che nel caso della redazione romana, propugnando la prevalenza sullo stato e sui sindacati di un partito fascista ristretto a élite totalitaria, si avvicinava assai al modello nazista[4].
Piero Ferrua infine, autore del dettagliatissimo Italo Calvino a Sanremo (Famija Sanremasca 1991) quanto alla fondazione del Mul non trovò alcuna conferma presso gli amici sopravvissuti da lui intervistati.
Di queste acquisizioni storiografiche ben poco trapelò sulla carta stampata, ma Scalfari “rispose” ugualmente ristampando sulla Repubblica del 5 dicembre 1993 la pagina di Zangrandi da noi citata, con la premessa che Il lungo viaggio attraverso il fascismo “resta l’analisi storica più approfondita di quelle che furono le vicende di una generazione la quale scoprì da sola l’antifascismo, attraverso un tormentato processo di chiarificazione storica e politica”. Sventuratamente però omise di cassare la riga finale sull’adesione al Pci di molti amici del Mul sanremese, pur avendo egli stesso pubblicato sulla Repubblica dell’11 marzo 1989 una lettera inviatagli da Calvino il 6 luglio ’45, che suona: “I vecchi amici sono tutti vivi. Nessuno di essi si è fatto onore, tranne Gianni [Pigati] che ha al suo attivo quasi un anno di montagna”.
Resta un punto insoluto: su che base Calvino nel 1960 sostenne l’espulsione di Scalfari dal Guf? Nelle quattordici lettere inviate all’amico tra novembre ’42 e giugno ’43 egli mai accenna al “fatto”, pur nominando a più riprese Roma fascista (dove Scalfari lo fece esordire il 29 aprile ’43). Di certo c’è solo che, quando nel luglio 1962 (tre mesi dopo l’uscita del Lungo viaggio attraverso il fascismo) i risultati dell’inchiesta condotta dal Paradosso vennero ripubblicati in La generazione degli anni difficili, il contributo di Calvino a differenza degli altri ventinove uscì radicalmente mutato, senza più traccia né dell’espulsione, né del Mul (né tantomeno del Partito aristocratico-sociale, il cui solo nome puzza di nuovo fascismo).
Qualche lume potrebbe venire dalle lettere di Scalfari a Calvino; la vedova Esther Singer, autorizzata dal mittente a pubblicarle, sulla Repubblica del 7 agosto 2004 annunciava: “Non subito, ma neanche tanto tardi, grazie a una donazione che ho fatto, saranno accessibili gli scritti che permetteranno di sapere quasi tutto di Calvino”. C’è dunque da sperare.
Note
[1] Zangrandi auspica “un’evoluzione del regime autoritario in regime propriamente totalitario”, secondo una prospettiva che La Rovere così sintetizza: “Nel nuovo sistema al pluralismo degli interessi e delle opinioni espresse dalla società civile si sarebbe contrapposto, come momento di sintesi, il ‘partito unico governativo’, cui sarebbe spettato il compito esclusivo delle scelte politiche” e che “avrebbe dovuto essere una élite dalle elevate doti morali di abnegazione e di dedizione alla causa collettiva”, p. 46.
[2] R. Zangrandi, op. cit., pp. 552-553. Scalfari ribadì la versione di Calvino-Zangrandi in una lettera del 4 giugno 1967 ad Arrigo Benedetti, che a proposito della guerra in Vienam gli aveva provocatoriamente chiesto se sceglieva la dittatura o la libertà: “Questa scelta io l’ho fatta nel 1942, quando fui espulso dal Guf” (poi in La sera andavamo in via Veneto, Mondadori 1986, p. 258).
[3] Indrio di passaggio smentì anche il particolare riportato da Paolo Murialdi su imbeccata di Scalfari in Aa. Vv., Perché loro? (Laterza 1984, p. 142), secondo cui “nel ’42 il vicesegretario del Pnf, Carlo Sforza, lo chiama a rapporto per comunicargli l’espulsione dal Guf”. Scalfari invece, quindici anni dopo la morte di Indrio, sulla Repubblica del 7 giugno 2008 rimemora “il gennaio del 1943, l’anno della mia espulsione”, così: “Fu in un breve periodo – saranno state due settimane – che in assenza dei due capi [Indrio e il vicedirettore Regdo Scodro] il giornale si faceva lo stesso, senza filtro professionale. E fu proprio in quell’intervallo d’anarchia che io, in prima pagina, piazzai due o tre neretti non firmati e perciò riconducibili all’orientamento della testata. Era la stagione del nascente quartiere dell’Eur, quella. La nazione intera attendeva ai preparativi per l’Esposizione […]. Ebbene: io nei miei pezzi attaccavo i profittatori, accusavo i gerarchi e i loro prestanomi di fare sui movimenti d’acquisto ‘affari non chiari'”. Poi “ero stato chiamato per conferire con il vicesegretario [del Pnf] Carlo Scorza. Quando arrivo nell’anticamera c’è Indrio che è già stato ricevuto. Mi viene incontro e mi sussurra: ‘C’è tempesta’”. Scorza subito esclama: “‘Camerata, dammi i nomi di questi mascalzoni che lucrano sul lavoro dell’Italia proletaria e io li farò arrestare!’. Io non ho nomi da dargli”, e l’altro lo espelle dal Guf. Spogliando a suo tempo Roma fascista, non ho trovato niente del genere, pur se invero l’unico numero in cui non compaiono articoli dei due capi sia quello del 21 gennaio ’43. Al tempo il lavori per l’Eur erano fermi da un anno, e nessuno intendeva né poteva proseguirli, visti i rovesci militari – che poi un espulso dal Guf scriva sulla rivista del medesimo fino al 24 giugno ’43 come fece Scalfari, è fuori da ogni logica.
[4] L’aveva sottolineato criticamente nel suo memoriale Il “secondo fascismo” (Mursia 1988) il sindacalista Vito Panunzio, lui sì esponente di punta del cosiddetto “fascismo di sinistra”.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 19 gennaio 2018