di Egidio Giordano e Andrea Salvo Rossi
Come per il sesso degli angeli o il mostro di Lochness, il dibattito sulla Terra dei Fuochi rimette periodicamente in questione l’esistenza stessa del suo oggetto. La pubblicazione dei risultati dell’indagine condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno (Izsm) sono rientrati da subito in questo discorso, finendo con l’avviare ad una campagna mediatica che – lungi da un’interpretazione seria dei dati – è ritornata puntualmente sulle posizioni negazioniste, quelle (per capirci) di chi sostiene che la “Terra dei Fuochi” sia un brand inventato dal pentito di camorra Carmine Schiavone e alimentato dall’allarmismo degli ambientalisti del territorio.
In questa campagna si sono trovati insieme sedicenti esperti del settore enogastronomico (food blogger) e, cosa molto più grave, il governatore De Luca, prontissimo a tuonare sulle prime pagine dei giornali che è necessaria, per la Campania, un’Operazione Verità, che sbugiardi le denunce relative all’emergenza ambientale e sanitaria della regione (e, ovviamente, tutte le realtà di base che costantemente lavorano per tenere alta l’attenzione sulla questione). La Terra dei Fuochi, dunque, sarebbe una fake news (così, trionfale, annunciava un articolo di Luciano Pignataro sul Mattino), da archiviare tra i miti e le leggende dell’orrore che non meritano alcuna credibilità.
Già da subito, in realtà, diversi esponenti dell’ambientalismo campano sono intervenuti per tentare di riportare razionalità e metodo all’interno del discorso. Basterebbe un briciolo di buon senso per rendersi conto che, in realtà, i dati dell’Izsm non hanno nulla a che vedere con il fenomeno Terra dei Fuochi, fenomeno che non si esaurisce certo nel problema della produzione agricola, ma che riguarda complessivamente quell’area geografica interessata da una gestione scellerata e criminale dello smaltimento dei rifiuti; un’area geografica – lo dicono le inchieste della magistratura, non le frange eversive dei comitati – dove imprese di tutto il territorio nazionale, camorre e politica corrotta si sono incontrate immaginando un vero e proprio disegno di morte che, nell’abbattere i costi di smaltimento dei rifiuti, condannava intere comunità all’intossicazione dell’aria, dell’acqua, del suolo.
Il lavoro dell’Izsm, infatti, è limitato ai terreni attualmente adibiti alla produzione agricola (il 10% del territorio regionale) in tutta la Campania (indipendentemente, cioè, dalla possibilità di localizzare quei terreni nelle aree interessate al fenomeno ecomafioso di cui si sta parlando).
Che la produzione campana sia, oggi, una produzione di qualità, grazie ad un monitoraggio efficace del territorio è una cosa che non solo ci rallegra, ma che rivendichiamo come uno degli effetti delle battaglie ambientali che hanno caratterizzato il nostro territorio. Dopo tutto, perché i dati bisognerebbe leggerli tutti, se guardiamo il 6° Censimento Generale dell’Agricoltura relativo alla Regione Campania presentato nel 2011 (cioè prima che il problema Terra dei Fuochi guadagnasse clamore mediatico) scopriamo l’acqua calda: si registra, in questo documento, una riduzione di oltre il 40% delle piccole imprese agricole a conduzione familiare, con picchi che superano il 60% nel napoletano. Gli anni immediatamente successivi alla crisi economica, cioè, sono stati anni in cui il settore primario della nostra regione ha subito gli effetti prevedibili delle politiche di liberalizzazione e di massificazione della produzione agricola – con un sempre maggior concentramento della produzione tra le oligopolie del settore – a detrimento dell’attenzione verso la produzione locale e la tutela della biodiversità, perché l’unico scopo era rispondere alle esigenze di un mercato che si stava ristrutturando.
Se confrontiamo questi dati con quelli forniti, nel 2016, da ISPRA-ambiente, scopriamo che la ripresa del settore campano deriva proprio dalla capacità di piccoli produttori, gruppi d’acquisto, attività a chilometro zero di sottrarsi ai diktat imposti dalle degenerazioni produttiviste del mercato agricolo, recuperando l’attenzione alle eccellenze locali, rispetto di parametri ecosostenibili e a tecniche non invasive di coltivazione. Quest’attenzione alla qualità della vita e all’importanza delle politiche ambientali non deriva da un’improvvisa illuminazione divina del popolo campano: essa è esattamente il frutto delle costanti campagne di sensibilizzazione, controinformazione, e lotta vera e propria agite dalla rete di associazioni, collettivi, comitati che, in Campania, hanno costruito buone pratiche e saperi popolari nella lotta costante contro il fenomeno del biocidio. Questo è storia.
La terra dei fuochi, però, non è un fenomeno agricolo, poiché l’area interessata non è – evidentemente – solo l’area coltivata (che era l’oggetto di studio dell’Izsm), ma l’intera superficie della regione: una regione in cui spiccano bombe ecologiche come Acerra, Caivano, Giugliano dove – sempre secondo uno studio, che De Luca si guarda dal commentare, dell’Izsm – le aree devastate e non coltivabili rappresentano rispettivamente l’80%, il 71% e il 10%. Un dato, questo, solidale con l’altro terribile dato che continuamente è oggetto di campagna negazioniste, ossia quello dell’incidenza oncologica che coinvolge la popolazione della zona (mentre la relazione dell’Izsm presentata riguardava volontari sani), nonché – per venire alle vere responsabilità della politica – con la totale assenza di un piano serio di risanamento, messa in sicurezza e bonifica dei territori inquinati. Questo in una regione che, nel 2016, risultava ultima nella classifica sui livelli essenziali di assistenza sanitaria (dato che non sbalordisce: il collasso del sistema puibblico è sotto gli occhi di tutti).
Per questa ragione i comitati campani preferiscono, ormai da anni, parlare di biocidio piuttosto che di Terra dei Fuochi: quest’etichetta giornalistica già di per sé è riduttiva, infatti, perché concentrata sul fenomeno dei roghi e poco attenta al complesso sistema di aggressione criminale e politiche omissive che – in Campania – mette in pericolo complessivamente la biosfera, cioè la vita stessa. Ma, a voler utilizzare la categoria, questo è la “Terra dei Fuochi”: il risultato ambientale di una necropolitica scientificamente condotta a tutto vantaggio dei grandi capitali delle ecomafie; una politica che ha subordinato la vita delle persone agli interessi del capitale privato in un quadro in cui, bisogna ricordarlo sempre, le camorre hanno rappresentato la forma eminente del neoliberismo nel meridione d’Italia. Lungi da essere fenomeno folkloristico o di bassa manovalanza estorsiva, il crimine organizzato è stato infatti quel dispositivo di potere in grado di intensificare i profitti dei capitali finanziari che a lui si rivolgevano, mettendo nelle amministrazioni locali e regionali uomini chiave che, costantemente, servivano ad oliare il processo.
Quello che è peggio, tornando all’occasione da cui nasce quest’articolo, allora, è che chi urla alla “bufala” parlando di Terra dei Fuochi, crede di farlo in nome della difesa del meridione: il meridionalismo rischia, in questo modo, di venir fuori completamente snaturato e tradursi in una sorta di trionfalismo che, nel tentativo di rifiutare il razzismo di Stato, finisce con il rifiutare anche i disastri concreti che quel razzismo ha prodotto. Il sottosviluppo del Sud Italia, invece, che deriva da un piano scientifico di predazione del nostro territorio, agito in perenne collusione con la classe politica e i capibastone dell’imprenditoria armata del Mezzogiorno, non è solo una “menzogna” o una “ideologia”. Lo aveva capito bene Antonio Gramsci ponendo proprio la questione contadina (e non nel senso di una rivendicazione gourmet del pomodoro del piennolo) al centro di qualsiasi progetto di trasformazione reale dell’esistente.
O il meridionalismo è una prospettiva di conflitto e riscrittura della storia da parte di quelli che, da quella storia, sono stati coattamente esclusi o, se serve a costruire spot oleografici, rischia di essere sterile, se non addirittura controproducente. Le lotte ambientali che animano la nostra regione, da sempre, ci indicano la strada giusta: difendere il territorio, difendere le comunità che lo vivono, difendere i beni comuni non a partire dall’utopica Arcadia che esiste solo nella testa dell’alta borghesia locale, ma a partire dalla concretezza drammatica delle condizioni materiali in cui vive il nostro territorio di subalterni che ancora gridano vendetta.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega Online il 15 dicembre 2017