di Vincenzo Vita
Dopo la non commendevole figura della volta precedente (triennio 2013/2015), quando il Contratto di servizio che regola i rapporti tra il Governo e la Rai non entrò mai in vigore, ecco che finalmente è stato concluso il lavoro del gruppo istituito dal ministero dello sviluppo e dalla concessionaria pubblica. L’articolato ora copre un quinquennio (2018/2022) e ha una tempistica dettata dalla Convenzione con lo stato del 28 aprile 2017. Lì si prevedevano sei mesi e più o meno ci siamo.
Ora, però, c’è il vaglio da parte della Commissione parlamentare di vigilanza, cui seguirà suggello definitivo. Ma, come in una matrioska, dopo aver sfilato la Convenzione, ecco che arriva la legge di (contro)riforma n.220 del dicembre 2015, quella che ha affidato al potere esecutivo la guida pressoché totalitaria dell’azienda: pessima l’ispirazione, pessimi i risultati. Con simile tagliola, i pur diligenti estensori del «contratto» hanno potuto fare un po’ di maquillage, intriso -però- di diverse insidie che qua e là peggiorano persino le versioni precedenti, la cui architettura rimane simile.
Qualche considerazione sparsa. Entra in scena tra i generi televisivi e radiofonici agli articoli 3 e 4 il «servizio». Che cos’è? La Rai non è complessivamente un servizio, pubblico? E poi. I «minori» descritti dall’articolo 8 come si collegano al recente decreto legislativo del ministro Franceschini che introduce la classificazione delle opere cinematografiche «non adatte ai minori di anni 6»? Il sistema di «segnaletica» rischia di saltare per eccesso di domanda.
Buona la scelta di rafforzare il processo di catalogazione digitale dell’archivio storico, ancorché non sia chiaro se l’accesso si avvarrà di software aperto. La Rai, anzi, potrebbe farsi capofila di una grande banca dati della memoria, vero antidoto rispetto all’imperante privatizzazione dell’aggregazione dei dati e di chiusura in poche mani della proprietà degli algoritmi. Sarebbe un compito strategico e straordinario, capace di restituire valore profondo all’apparato di viale Mazzini.
La dimenticanza non è casuale, se è vero che la «crossmedialità» trova il suo banco di prova «nei servizi interattivi per gli utenti, a cominciare dall’informazione sul meteo e sul traffico». Pochino. Mentre cala la mannaia sulla testata immaginata – davvero sì con occhi e testa digitali – da Milena Gabanelli, sulla cui annunciata uscita dai ranghi dell’azienda è sceso un torpore «doroteo». Censura in salsa Nazareno?
Alla luce degli eventi tecnologici e della calata degli «Over The Top» serviva un coraggio che nei vari commi non si intravvede. Anzi. Don Abbondio vince il girone di andata al comma 6 dell’articolo 23, laddove la quantificazione della promozione dei film e audiovisivi italiani ed europei rimane uguale a prima, non tenendosi conto neppure del decreto del ministero delle attività culturali (n.469) che innalza le soglie.
Un’altra omissione pesante: nulla sugli agenti che hanno in mano gran parte delle reti. Un dubbio, per finire. L’articolo 18 impone alla Rai di trasmettere sulle diverse piattaforme distributive. Tradotto: Sky potrà inserire nei palinsesti i canali Rai gratuitamente? Quanti santi in paradiso ha Rupert Murdoch, visto che manda le bollette di pagamento ogni 28 giorni, sposta a Milano da Roma lavoratrici e lavoratori, in diversi casi procedendo persino al licenziamento? Il contratto di servizio, almeno, non finisca tra le carte e i meri atti dovuti.
Sarebbe interessante un ampio dibattito pubblico. Già, ma non è la Bbc e qui gli scripta volant.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il Manifesto il 1 novembre 2017