di Roberta Mistroni
Principio di eguaglianza: la Costituzione italiana all’art. 3 afferma il principio fondamentale dell’uguaglianza dei cittadini senza alcuna distinzione. Ciò che però rende moderna la nostra Costituzione, motivo per cui la si definisce sociale, è che nel secondo comma dell’articolo si afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Dall’articolo si evince che quando si parla di uguaglianza non si fa riferimento alla semplice uguaglianza formale (ad esempio “tutti sono uguali di fronte alla legge” oppure “tutti anno diritto al lavoro”), bensì si fa riferimento all’uguaglianza sostanziale, cioè all’uguaglianza che si crea eliminando gli ostacoli che ne impediscono la realizzazione.
Affermare questo principio significa riconoscere una funzione socio economica allo Stato che si fa garante dello sviluppo. Ma come può farsi garante? Attraverso una serie di interventi che la costituzione mette bene in risalto. Vediamo di elencarne almeno una parte:
- all’art.3 secondo comma si afferma, oltre a quanto già evidenziato, che l’intervento della Repubblica è volto a garantire l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato. Ciò significa che per la Costituzione i lavoratori sono cittadini la cui partecipazione alla vita collettiva è di fondamentale importanza;
- all’art.4 non ci si limita a riconoscere a tutti il diritto al lavoro ma si afferma che la Repubblica promuove le condizioni per rendere effettivo tale diritto;
- all’art.31 si mette in rilievo che la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia;
- all’art.32 si fa presente che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti;
- agli art.33 e 34 si mette in rilievo l’importanza fondamentale della scuola pubblica e si afferma che la scuola è aperta a tutti, che l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita. Si afferma inoltre che i capaci e i meritevoli anche privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i più alti gradi di istruzione per cui la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio e altre provvidenze;
- all’art.35 la Costituzione afferma che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.;
- all’art.38 si fa presente che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale;
- agli art. 41 e 42 si tutela l’iniziativa economica,che però non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, così come si tutela la proprietà privata, che però deve essere accessibile a tutti e deve avere una funzione sociale.
Questo semplice elenco dei compiti che la Costituzione affida allo Stato rende immediatamente comprensibile un problema fondamentale: come può lo Stato svolgere tali compiti per applicare la Costituzione, cioè come può procurarsi i mezzi necessari per il loro svolgimento? A parte eventuali entrate che può ottenere da beni facenti parte del suo demanio o di sua proprietà, l’unica via che lo Stato ha di fronte a sé è quella di prelevare ricchezza dai cittadini attraverso il sistema fiscale, cioè facendo loro pagare imposte e tasse. Qui si pone il problema che ci interessa: in base a quali criteri lo Stato deve ripartire il carico tributario tra cittadini che dispongono di redditi e di ricchezze diverse?
Articolo 53 della Costituzione
La Costituzione ci viene subito in aiuto per risolvere questo problema. L’art. 53 infatti afferma: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Cosa si intende per capacità contributiva? Si intende la possibilità che ha ogni cittadino di sopportare un certo onere fiscale in relazione alla sua ricchezza senza che il carico fiscale riduca la sua possibilità di condurre una vita dignitosa.
Ma come si fa a dosare l’onere fiscale che ciascuno deve sopportare? L’art.53 ci fornisce subito il criterio, infatti dice che il sistema tributario è informato a criteri di progressività. Molto in sintesi ciò significa che chi possiede di più deve pagare allo Stato una quantità di imposte più alte di chi ha di meno, ma non solo proporzionalmente più alte, bensì più che proporzionalmente (cioè in modo progressivo rispetto alla ricchezza posseduta).
Per essere più chiari facciamo alcuni esempi. Supponiamo che Tizio abbia un reddito netto di 100.000 euro all’anno e che Caio abbia invece un reddito netto di 50.000 euro sempre all’anno. Se l’imposta da pagare è proporzionale e, ad esempio, pari al 25% del reddito, Tizio pagherà allo Stato 25.000 euro e Caio 12.500. Il reddito che resta disponibile ai due soggetti è quindi rispettivamente di 75.000 euro per Tizio e di 37.500 per Caio. E’ evidente che il sacrificio compiuto da Tizio è nettamente inferiore a quello compiuto da Caio, infatti Tizio con ogni probabilità dopo aver pagato le imposte non dovrà ridurre i propri consumi ma semplicemente avrà un po’ di risparmio in meno, Caio invece si troverà in una situazione diversa e dovrà probabilmente selezionare i propri consumi e con ogni probabilità ridurli. Questo risultato secondo la lettera della nostra Costituzione non risponde a criteri di giustizia sociale.
Come dovrebbe essere invece il prelievo fiscale? Riprendiamo l’esempio di Tizio e di Caio e supponiamo l’applicazione di un’imposta progressiva per scaglioni che preveda, ad esempio, le seguenti aliquote: 15% per redditi fino a 20.000 euro, 20% da 20.001 a 50.000, 35% da 50.001 a 80.000 e 45% da 80.001 a 110.000. In un’ipotesi di questo tipo Caio pagherebbe allo Stato complessivamente 9.000 euro (3.000 sul 1° scaglione e 6:000 sul secondo) e Tizio 28.500 (somma ottenuta applicando le aliquote sui diversi scaglioni: 3.000 + 6.000 + 10.500 + 9.000). Osservando i calcoli ci si rende conto che l’entrata complessiva per lo Stato non cambia (sempre 37.500 euro), ma la situazione per i due contribuenti è diversa il reddito residuo di Caio è più alto di prima (41.000 euro) mentre quello di Tizio è più basso (71.500 euro). Si è così realizzata almeno in parte la giustizia sociale per giungere ad una migliore redistribuzione della ricchezza.
Teniamo presente che per attuare un sistema tributario progressivo non basta tener conto delle imposte dirette, bisogna prendere in considerazione anche le imposte indirette come, ad esempio l’IVA che colpisce in definitiva tutti i consumi. Le imposte indirette sono per loro natura regressive rispetto al reddito, vale a dire che in proporzione incidono di più sui redditi più bassi. Se un’imposta indiretta del 4% colpisce, ad esempio, il consumo di pasta, che è quasi equivalente per percettori di redditi bassi e di redditi alti, è evidente che coloro che percepiscono i redditi bassi ne pagano proporzionalmente di più. L’osservazione è molto importante perché, se si vuole effettivamente adottare un sistema tributario complessivamente progressivo ,bisogna che le imposte dirette siano talmente progressive da compensare la regressività di quelle indirette.
La progressività del sistema tributario non risponde solo a criteri di giustizia sociale, così come impone la Costituzione, ma anche ad interessi economici. Infatti i cittadini basano evidentemente i loro consumi sul reddito che percepiscono, per cui chi ha un reddito relativamente basso si dice in economia che ha un’alta propensione marginale al consumo. Ciò non vuol dire che consuma di più di chi ha un reddito alto, semplicemente che se il suo reddito aumenta è facile che aumenti i consumi in modo più che proporzionale rispetto all’aumento del reddito per soddisfare bisogni che prima non poteva affrontare (il reddito aumenta del 10%, il cittadino aumenta i consumi del 12%). Viceversa per chi ha un reddito alto (il reddito aumenta del 10%, i consumi aumentano solo del 5%). L’effetto redistributivo dell’imposta progressiva favorisce quindi l’aumento del reddito residuo di chi ha meno e quindi l’aumento dei consumi. Questo ragionamento è economicamente importante perché favorisce la domanda di beni e quindi incentiva la produzione delle imprese e lo sviluppo economico.
In definitiva applicare una politica fiscale che penalizza i redditi bassi e favorisce quelli alti è economicamente perdente: la produzione non viene incentivata.
Nell’esempio di imposta proporzionale non a caso abbiamo adottato l’aliquota del 25%. Tale percentuale unica da applicare a tutti i redditi è infatti un’ipotesi che è stata avanzata in ottemperanza al sistema neo-liberale che oggi purtroppo sembra dominare i sistemi economici. Coloro che ipotizzano tale imposta parlano di “flat tax” ovvero di “tassa piatta” come giustamente traduce Paolo Favilli. Si tratterebbe di un meccanismo di imposta tutta a favore della accumulazione di capitale e della concentrazione di ricchezze. Al contrario l’imposta progressiva è la bandiera della lotta tra ricchi e poveri cioè favorisce la redistribuzione del reddito nazionale.
In Italia oggi la progressività del sistema tributario ha subito moltissime attenuazioni infatti dalla fine degli anni ottanta ad oggi gli scaglioni sono stati ridotti drasticamente e in particolare sono scomparsi gli scaglioni che riguardano i redditi più alti. Secondo gli analisti l’Italia ha oggi uno dei peggiori indici per quel che concerne l’effetto redistributivo dell’intervento dello Stato tra i paesi Ocse.
Pressione tributaria e servizi dello Stato
Tante volte si sente dire che in Italia la pressione tributaria è troppo alta, cioè che si pagano troppe imposte. Prima però di applaudire a osservazioni a prima vista ovvie bisogna fare un ragionamento importante:
- 1. Come abbiamo già spiegato bisogna vedere come lo Stato distribuisce il carico tributario tra i cittadini: se chi ha poco paga poco o nulla e chi ha molto paga molto. E’ un importante elemento da considerare per valutare da un punto di vista sociale ed economico il carico tributario complessivo;
- 2. il prelievo totale di imposte va sempre confrontato con i servizi che lo Stato offre, in altre parole con l’efficienza dell’attività dello Stato.
Supponiamo di prendere in considerazione due paesi con uguale numero di abitanti, uguale reddito nazionale e uguale prelievo complessivo di imposte. In tale ipotesi i due paesi hanno la stessa pressione tributaria oggettiva, pressione tributaria che è misurata con la formula T/RN (totale dei tributi diviso per il reddito nazionale). Supponiamo che tale pressione tributaria sia pari alla metà del RN. Possiamo affermare che i due paesi si trovano nella stessa situazione? Evidentemente no perché manca un elemento molto importante: come lo Stato spende i soldi prelevati nei servizi che offre ai cittadini?
Supponiamo che nello Stato A ai cittadini, dopo il pagamento delle imposte e dopo il soddisfacimento dei loro bisogni, resti un risparmio, da dedicare a bisogni futuri o altro, doppio rispetto a quello che resta ai cittadini dello Stato B che devono dedicare una parte più elevata del loro reddito residuo al soddisfacimento dei loro bisogni. E’ evidente da questo esempio che i cittadini dello Stato A si trovano in una migliore posizione. Da cosa dipende questa differenza visto che il RN e il prelievo fiscale complessivo sono uguali? E’ chiaro che nello Stato A i governanti impiegano il prelievo fiscale in modo efficiente per fornire ai cittadini servizi fondamentali come sanità, istruzione, difesa del territorio, sostegno al reddito, assistenza sociale ecc. ecc.; l’offerta di servizi permette ai cittadini di spendere meno perché non devono procurarseli privatamente. Nello Stato B invece i governanti sperperano il prelievo fiscale obbligando i cittadini che possono permetterselo, anche sacrificando altri consumi, a rivolgersi al settore privato e quelli che non possono permetterselo a rinunciare ad una serie di servizi fondamentali per condurre una vita dignitosa.
In definitiva per valutare il prelievo fiscale non basa rapportarlo al RN, ma bisogna confrontarlo anche con l’efficienza dello Stato nell’utilizzo del medesimo.
Facciamo un’ultima osservazione. Da molte parti si sente dire che le spese dello Stato non possono essere aumentate perché il debito pubblico è già esageratamente alto e quindi, non solo non può essere ulteriormente aumentato, ma deve essere ridotto pian piano nel tempo. A parte il fatto che per ridurre il debito basterebbe applicare rigidamente il dettato dell’art.53 e cioè reintrodurre una reale progressività del sistema tributario e combattere realmente l’evasione fiscale, osserviamo che a parità di carico tributario globale (cioè a parità di entrate fiscali dello Stato) si può benissimo aumentare la spesa sociale lasciando inalterato il debito pubblico.
Come? Variando qualitativamente la spesa, vale a dire dirigendola essenzialmente a favore dello sviluppo economico (politica industriale mirata a favorire le zone meno sviluppate del paese e l’incremento delle produzioni di maggiore interesse per la collettività come i beni comuni) e a favore della collettività in genere e delle classi sociali più disagiate in particolare (servizi sociali come sanità e istruzione, contributi sociali, pensioni adeguate con riduzione di quelle troppo elevate, sovvenzioni ai disabili ecc. ecc.). Un aumento della spesa di questo tipo implicherebbe, al fine di mantenere il saldo inalterato, una riduzione di uguale misura di altre spese come, ad esempio, quelle per gli armamenti, per il finanziamento di enti inutili, ovvero per salvare, pagando liquidazioni spropositate, enti bancari in dissesto ecc.
Come si vede è possibile riequilibrare il debito facendo una politica fiscale e di spesa che non altera quantitativamente le somme da riscuotere o da spendere, ma le varia qualitativamente. Questa è evidentemente una scelta politica che i governanti sarebbero chiamati a fare se volessero applicare il dettato costituzionale.
Conclusioni
L’analisi del rapporto tra principio di uguaglianza e sistema tributario ci ha portato a mettere in luce l’importanza delle scelte di politica economica e fiscale che lo Stato opera: è chiaro che per aderire alla Costituzione le scelte devono essere socialmente ed economicamente volte ad una forma di sviluppo che favorisca l’intera collettività e quindi si rivolga oltre che alla collettività in generale, alle categorie di cittadini più disagiate. Se invece la classe politica dominante intende favorire il capitale e una globalizzazione finanziaria senza limiti, è ovvio che si distacchi completamente da quanto scritto nella Costituzione. E’ ciò che è avvenuto pian piano dagli anni ottanta ad oggi con una particolare accelerazione negli ultimi tempi: questa accelerazione ha avuto il suo apice con il tentativo di stravolgere la Costituzione, per fortuna bloccato con il referendum del 4 dicembre 2016 nel quale il NO ha vinto. Per ora, almeno formalmente, la nostra Costituzione è rimasta inalterata.
Il pericolo però non è superato. Il tema costituzionale è appannaggio del Parlamento o, comunque, dovrebbe esserlo di un assemblea che rappresenti effettivamente coloro che hanno votato. Ma da circa 11 anni in Italia abbiamo un Parlamento i cui membri sono stati eletti con un sistema elettorale dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale (il “Porcellum”). I membri del Parlamento in definitiva sono dei nominati perché scelti dai capi-partito mediante le liste bloccate, mentre le maggioranze sono determinate da premi in seggi senza alcun rapporto con i risultati elettorali. In sintesi non si può certamente affermare che i parlamentari rappresentino i cittadini: essi seguono in genere gli ordini dei rispettivi leader.
Questo lungo discorso dovrebbe far comprendere che il modo con cui vengono attribuiti i seggi parlamentari (legge elettorale) non è un semplice tecnicismo come spesso si vuole far credere per evitare che i cittadini se ne occupino. Da come è costruita la legge elettorale dipende la maggiore o minore rappresentatività del popolo da parte del Parlamento, e quindi la maggiore o minore volontà di quest’organo di svolgere le funzioni fondamentali che la Costituzione gli attribuisce: fare le leggi (oggi sempre più spesso è il governo che di fatto si arroga questo potere), dare la fiducia al governo (oggi si cerca di far passare l’idea che il capo del governo dovrebbe essere votato dal popolo), controllare l’attività del governo ecc. ecc. In definitiva il Parlamento in una Repubblica parlamentare come la nostra è l’organo fondamentale dell’organizzazione dello Stato ma deve essere un Parlamento eletto democraticamente e quindi non subalterno al governo.