L'Italia a mano armata: i numeri e il giro dell'export militare

7 Giugno 2017 /

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di Giacomo Pellini
“Nei concili di governo dobbiamo stare in guardia contro le richieste non giustificate dalla realtà del complesso industriale militare. Esiste e persisterà il pericolo della sua disastrosa influenza progressiva. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione metta in pericolo la nostra democrazia. Solo il popolo allertato e informato potrà costringere ad una corretta interazione la gigantesca macchina da guerra militare….in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme”. Queste parole non sono di un pacifista: le pronunciò nel lontano 1961 nel suo discorso di addio alla Nazione l’allora Presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, membro del Partito Repubblicano ed ex comandante delle Forze Armate statunitensi in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e Capo di Stato Maggiore dell’esercito.
Parole che suonano strane se ripetute da un ex militare: perfino Eisenhower, politicamente molto conservatore, aveva capito il pericolo che può rappresentare il complesso militare – industriale per le istituzioni democratiche. Tuttavia, le sue affermazioni suonano ancora vuote ai nostri giorni, visto che il giro d’affari intorno ad armi e armamenti realizza lauti profitti, ed aumenta il suo volume di anno in anno.
Il caso del nostro Paese è emblematico: nel 2016 l’export militare italiano ha registrato un aumento dell’85% rispetto all’anno precedente. Numeri da capogiro, documentati dalla Relazione annuale sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazioni di armi, che il Governo ha consegnato al Parlamento lo scorso aprile.

Ma analizziamo i dati in termini assoluti. Nel 2016 il valore complessivo delle licenze di esportazioni è stato di 14,6 miliardi di euro, un vero e proprio boom se guardiamo agli anni precedenti: “solo” 7,8 miliardi nel 2015, mentre nel 2013 la cifra si attestava intorno ai 2,5 miliardi. Rispetto all’exploit degli ultimi anni, i numeri delle vendite dei primi anni 2000 appaiono irrisori (1,9 miliardi) e ancor di più lo sono quelli del lustro immediatamente successivo alla fine della Guerra Fredda, 1991 – 1995 (1 miliardo). Dati che, secondo Sergio Andreis, della campagna Sbilanciamoci! sono “sottostimati”, in quanto “il modo di calcolo non permette la trasparenza assoluta: in molti casi si tratta di contratti legati alla sicurezza nazionale coperti dal segreto di Stato, quindi non pubblicati né pubblicabili”.
Ma a chi vengono vendute queste armi? Dalla relazione emerge che il numero di Paesi destinatari delle licenze di esportazione nel 2016 è stato di 82, in diminuzione rispetto ai 90 dell’anno precedente. Inoltre, il volume dei trasferimenti militari ai membri Ue e Nato dello scorso anno ha rappresentato il 36,9% sul totale, mentre il restante 63,1% è andato a Stati extra Ue e extra Nato. Tendenza inversa rispetto al 2015, quando questi valori sono stati pari, rispettivamente, al 62,6% e 37,4%.
A un primo sguardo, il dato potrebbe rafforzare la tesi di chi vede l’Unione e l’Alleanza Atlantica come due organismi oramai “obsoleti”. Ma se guardiamo alla lista dei principali partner a cui forniamo materiale bellico made in Italy, è interessante notare come al primo posti spunti il Kuwait – al quale abbiamo venduto armi per un valore complessivo di 7,7 miliardi – seguito da quattro Paesi europei, Regno Unito (2,4 miliardi, mentre nel 2015 era primo con 1,3 miliardi), Germania (1 miliardo), Francia (570 milioni) e Spagna (470 milioni).
Sono proprio i rapporti commerciali tra l’Italia e la monarchia mediorientale la causa principale di questo aumento vertiginoso dell’export militare: lo scorso l’anno il nostro Paese ha effettuato una commessa record al Kuwait di 28 Eurofighter Typhoon della Leonardo, per un valore di 7,3 miliardi di euro. Il progetto, sviluppato da un consorzio di 400 aziende italiane, inglesi, tedesche e spagnole, ha come capofila l’italiana Finmeccanica, impresa leader del settore della difesa partecipata dal Governo italiano (al 30,2%): proprio all’azienda di Via Monte Grappa, secondo gli analisti, andrà circa il 50% dell’intera somma.
“Si tratta del traguardo commerciale più grande mai raggiunto” sosteneva un anno fa un entusiasta Mauro Moretti, amministratore delegato della società, durante la solenne firma del contratto a Kuwait City, alla quale erano presenti anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti ed il suo omologo Khaled Al Jarrah Al Sabah. Secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), tra il 2013 e il 2014 Finmeccanica ha occupato il nono posto nella classifica mondiale delle aziende fornitrici di materiali bellico, con un volume di vendite in armi pari, rispettivamente, a 10.540 e 10.560 milioni di dollari. Tra le altre società che occupano i primi otto posti, sette sono di origine statunitensi, mentre una, il Gruppo Airbus – al settimo posto – è un consorzio transeuropeo.
Ad oggi, il numero complessivo di Eurofighter venduti raggiunge quota 599 unità in otto Paesi diversi: secondo le stime, il giro d’affari che ruota intorno a quello che è considerato dal consorzio «il più avanzato aereo da combattimento multiruolo attualmente disponibile sul mercato mondiale» assicura in Europa oltre 100 mila posti di lavoro; tra i 20 e i 30 mila si trovano in Italia. Per il periodo 2017 – 2021 si prevede un aumento della redditività dell’azienda stimato tra il 3% e il 5% dopo la battuta d’arresto degli ultimi anni, possibilità non più remota grazie al complessivo aumento delle spese militari in tutto il mondo.
Ma non c’è solo il Kuwait. Tra gli acquirenti del nostro Paese figurano petro-monarchie come l’Arabia Saudita (427 milioni, al quinto posto), e subito dopo gli Stati Uniti il Qatar (341 milioni). La Turchia, invece, in decima posizione (133 milioni). Tutti Paesi che dei diritti umani se ne infischiano allegramente, e che ricorrono sistematicamente a pratiche illegali secondo il diritto internazionale, quali repressione della libertà di espressione, tortura e sfruttamento dei lavoratori migranti.
Il caso più grave è sicuramente quello dell’Arabia Saudita: un Paese che, oltre a reprimere duramente e sistematicamente i diritti delle donne e delle minoranze religiose, sta conducendo una guerra con il vicino Stato dello Yemen da circa due anni. Più che un conflitto si tratta di un vero e proprio massacro – che ha lasciato sul terreno, per l’Onu, oltre 10 mila morti e 40 mila feriti – per il quale Riyad è stata a più riprese condannata dalle Nazioni Unite e da altre Ong, come Amnesty. La causa principale delle stragi sistematiche, secondo l’Alto Commissario dell’Onu, sono i bombardamenti che la coalizione a guida saudita continua a perpetrare nei confronti dello Stato adiacente.
Tra il 2014 e il 2015 la Relazione annuale del Governo italiano segnalava un aumento del 58% dell’export militare italiano verso il Paese degli Sceicchi, da 163 milioni a 257 milioni, prima di quadruplicare nel 2016. Un exploit riconducibile soprattutto alle bombe prodotte dallo stabilimento sardo della Rwm Italia Spa di Domusnovas, in provincia di Cagliari – ma con sede a Ghedi (Brescia). É la relazione a parlare: tra il 2014 e il 2015 abbiamo consegnato a Riyad 600 bombe Paveway (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro). Recentemente il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che prevede il divieto di vendere armi ai Paesi coinvolti nel conflitto nello Yemen, ossia Arabia Saudita, Qatar ed Emirati.
Risoluzione che l’Italia continua a violare. Come continua a infischiarsene, oltre che dell’articolo 11 della nostra Costituzione, anche della legge 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” approvata dal Parlamento sotto il Governo Andreotti sulla spinta dei movimenti pacifisti. Nello specifico, il provvedimento vieta l’esportazione e il transito dei materiali d’armamento verso Paesi in stato di conflitto armato, responsabili di violazioni accertate dei diritti umani e verso quelli in cui è in vigore un embargo da parte dell’Onu. In poche parole, Stati come l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia: Paesi che oltretutto “hanno avuto influenze dirette nel fomentare organizzazioni radicali legate al terrorismo internazionale” sostiene Antonio Mazzeo, giornalista impegnato nei temi della pace. “Se da un lato dichiariamo di voler combattere il terrorismo internazionale” conclude Mazzeo, “dall’altro lo fomentiamo esportando armi, aumentando le spese militari o la proiezione italiana all’estero”.
Nonostante la palese violazione, perché nel dibattito pubblico quasi nessuno contesta all’Italia di non applicare la 185 né di rispettare le leggi? “Perché non c’è nessuno che le fa rispettare”, dice Sergio Andreis, “né che porta il Governo in Tribunale su queste inadempienze. Quindi tutti gli attori dell’esportazione di armi si muovono in questo quadro.” La soluzione, secondo Andreis è che “le organizzazioni schierate per la pace e i parlamentari a cui sta a cuore il tema dovrebbero intraprendere azioni giuridiche per portare il nostro Paese e gli altri che violano le risoluzioni di fronte ai tribunali nazionali e internazionali affinché queste violazioni abbiano fine”.
Ci sono poi i dati del Sipri, che fotografa attentamente la situazione a livello mondiale. Secondo il think tank svedese, il 2016 ha visto un aumento complessivo della spesa militare dello 0,4% (+1686 miliardi di dollari); con il suo +11% la pole position dell’aumento delle spese in Europa occidentale spetta proprio all’Italia. Anche le superpotenze hanno aumentato considerevolmente il proprio budget bellico: al primo posto gli Stati Uniti registrano un aumento dell’1,6%; seguono poi Cina (+5,4%), Russia (+ 5,9%), Arabia Saudita (che passa dal terzo al quarto posto rispetto al 2015) e India +8,5%.
Oltre a questo ci sono altre questioni aperte. In primo luogo i progetti di ammodernamento delle bombe nucleari in corso, che oltre ai Paesi minori coinvolgono soprattutto le grandi potenze, in primis gli Usa, che secondo Mazzeo “prevedono di spendere da qui a 20 anni circa 300 miliardi di dollari per rinnovare il proprio arsenale atomico”. Nel dicembre del 2016, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato a larga maggioranza una risoluzione per l’inizio di negoziati che diano vita ad un Trattato che vieti le armi nucleari. Tra i Paesi, 123 hanno votato a favore, 16 si sono astenuti, mentre 38 erano contrari – e tra questi vi era anche l’Italia.
La strada è in salita, ma nel 2017 sono previsti ulteriori sforzi per intensificare la cooperazione sul disarmo atomico. C’è poi il terrorismo, che secondo l’attivista diventa “la narrazione con la quale giustificare l’aumento delle spese militari e il coinvolgimento dei Paesi occidentali in nuove missioni internazionali”. Last but not least c’è il problema del dual use, le tecnologie che possono essere usate sia per scopi pacifici che per quelli militari. “L’Italia si era data una legge su questo” dice Sergio Andreis, “che fu poi abrogata dal Governo Berlusconi”. “C’è la necessità di normare queste tecnologie, e il Parlamento europeo sta finalmente discutendo una normativa Ue” continua Andreis, che poi conclude “sarebbe bene che anche il legislatore italiano adotti provvedimenti per regolare questo settore”.
C’è poi stato l’ultimo G7 di Taormina. La scelta della location del summit non è stata casuale: andando oltre l’apparente discordia tra i leader mondiali e la retorica trumpiana – e ora anche tedesca – della Nato come obsoleta, la Sicilia rimane uno dei principali hub militari del Mediterraneo, sia per gli Usa che per l’Alleanza atlantica. Soprattutto per la presenza della base Nato di Sigonella, che nei prossimi mesi, sostiene Antonio Mazzeo “sarà ulteriormente potenziata con un sistema di controllo di droni militari e potenziata sia rispetto agli scenari di guerra mediorientali, che a quelli dell’Est Europa, in quanto”, puntualizza il giornalista “in Ucraina e Crimea sono attivi droni che sono installati, di base a Sigonella”.
Insomma, l’Italia si muove in sintonia con le dinamiche di riarmo e ripresa delle tensioni e dei conflitti a livello internazionale, quando sarebbe invece urgente che Governo e Parlamento – nel rispetto dell’articolo 11 della Costituzione – facciano pressione sulle istituzioni europee affinché l’Unione diventi soggetto promotore in sede Onu di un dialogo globale sul tema del disarmo. Altrimenti possiamo solo sperare che si comincino a costruire nuove bombe intelligenti: come recita un famoso detto, “così intelligenti da non scoppiare più”.
Questo articolo è stato pubblicato dal Sbilanciamoci.info il 30 maggio 2017

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