di Massimo Corsini
Il paradosso per chi oltrepassa i confini del nostro Paese è rimanere ai margini. Diventa semplicemente un’assurdità se chi si trova ai margini non ha dovuto emigrare da chissà dove, ma è sempre stato lì nel suo paese.
Esiste, infatti, una zona d’ombra nella quale convivono nuovi migranti e cittadini italiani appartenenti alle fasce più deboli: ad accomunarli è un carente livello di alfabetizzazione funzionale, ovvero delle competenze fondamentali necessarie alla vita di tutti i giorni. La cura di questa fetta di popolazione spetterebbe, se supportata con i dovuti mezzi, alla neonata istituzione scolastica dei Cpia (Centri provinciali d’istruzione per gli adulti).
Emilio Porcaro, preside del Cpia metropolitano della città di Bologna, e referente su scala nazionale di tutti i Cpia in Italia, spiega infatti che, benché oggi la maggior parte degli utenti siano stranieri, parliamo dell’80-85%, teoricamente il target a cui si rivolge questa nuova istituzione scolastica per gli adulti è rappresentato dalle fasce più deboli della popolazione del paese: italiani e non.
“La più recente indagine Piaac – Programme for the International assessment of adult competencies – su tutta l’area Ocse e in Italia curata dall’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) ha messo in luce una situazione ancora piuttosto carente rispetto al problema dell’educazione degli adulti. Il sondaggio ha evidenziato grosse difficoltà in un’importante fetta della popolazione relativamente alle competenze di alfabetizzazione funzionale, quelle che servono per vivere e lavorare, tanto per intenderci, e sono Literacy (testi di uso quotidiano), Numeracy (calcoli di uso quotidiano) e Digital Device (l’uso delle nuove tecnologie per la vita di tutti i giorni” spiega Porcaro.
Si tratta di un’indagine condotta a campione su 1125 soggetti di cui il 36% ha dimostrato difficoltà nelle competenze sopraindicate. I Cpia sono un’istituzione scolastica che non nasce dal nulla. Di fatto raccolgono l’eredità dei vecchi Ctp (centri territoriali permanenti), convertiti in Cpia, appunto, solo nel 2012.
Rappresentano l’evoluzione di quello che una volta erano le 150 ore, le vecchie scuole serali tanto per intenderci, istituite per prendere il diploma di terza media, un esperimento nato negli anni ’70 con il contratto dei metalmeccanici per alfabetizzare la classe operaia che affollava le fabbriche negli anni successivi al miracolo economico. Nel 1997 sono stati istituiti i Ctp che, oltre alle 150 ore, prevedevano anche l’alfabetizzazione per gli stranieri.
Ma fino ad allora si parlava di offerta formativa all’interno di scuole normali. Solo nel 2012 vengono istituiti i Cpia come istituzioni scolastiche autonome, partendo da una sperimentazione condotta da 9 istituti tra cui Bologna che oggi funge un po’ da capofila nazionale. Si tratta di strutture amministrative in rete organizzate su più istituti e strutture scolastiche, in Italia sono 126, solo in Emilia Romagna sono 12. Il Cpia metropolitano di Bologna, che conta 2500 iscritti, ad esempio, comprende 15 istituzioni scolastiche tra scuole medie, superiori ed il carcere.
Tuttavia, quello che dovrebbe essere lo strumento ufficiale delle istituzioni per monitorare il livello culturale minimo e l’alfabetizzazione funzionale della popolazione italiana, oltre al potenziale d’integrazione dei cittadini immigrati è, potremmo dire, fermo al palo. Spiega sempre il preside del Cpia bolognese che “con la legge 107, quella della buona scuola, i Cpia sono stati lasciati un po’ indietro. È vero che rappresentano, per così dire, un work in progress, si tratta di una normativa che si sta strutturando, però attualmente sono solo la somma, dal punto di vista dell’organico, degli ex Ctp. In realtà sarebbero necessarie risorse economiche ed investimenti significativi per adeguare il numero di docenti e formarli. In buona sostanza, ad ora, ci si è dati quattro anni di tempo per vedere come evolve la situazione limitandosi ad un monitoraggio”.
Eppure la flessibilità, la multifunzionalità e l’importanza strategica di questa nuova istituzione fa sì che, sulla base di accordi tra il Miur e ministero degli Interni, i Cpia siano anche l’organo preposto a dare valore giuridico al test di conoscenza della lingua italiana per gli immigrati richiedenti il permesso di soggiorno a tempo indeterminato, mentre per coloro, invece, che sono appena arrivati nel nostro paese, la stessa istituzione è la risorsa che sempre lo Stato mette a disposizione per rendere possibile “l’accordo di integrazione” con il cittadino immigrato.
Prima del 2011 era semplicemente la questura incaricata di fare degli accertamenti, oggi, sulla base di questo “accordo”, per ottenere il permesso di soggiorno vengono concessi due anni di tempo per imparare la lingua ed adempiere ad un corso di cultura civica. “Si tratta sempre di conoscenze pratiche – spiega ancora Porcaro – come la conoscenza della pubblica amministrazione, sapere come rapportarsi con il servizio sanitario, come richiedere la carta d’identità, a cosa serve la questura, eccetera”.