di Alessandro Somma
Attraverso il fisco lo Stato redistribuisce la ricchezza secondo un principio di giustizia e di solidarietà: chi ha più forza economica versa più soldi di chi ne ha meno. È quanto prevede la Costituzione italiana, stabilendo che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, e soprattutto che “il sistema tributario è improntato a criteri di progressività” (art. 53).
In tal modo più si è facoltosi, e più è elevata la percentuale di reddito che deve essere versata allo Stato, che la utilizzerà per fornire i beni necessari a soddisfare i diritti fondamentali di chi non può ottenerli a prezzi di mercato: dalla sanità all’istruzione, passando per le pensioni, la casa e la mobilità. Si attua così il principio di parità sostanziale richiamato anch’esso dalla Costituzione italiana, per cui lo Stato deve assicurare l’uguaglianza dei cittadini rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona (art. 3).
Opposto è lo schema voluto dalle destre, che rifiutano la progressività del sistema tributario e reclamano la flat tax: la tassa piatta, con aliquota fissa, che non cresce con l’aumentare del reddito. È lo schema utilizzato nella Russia di Putin, in alcuni Stati un tempo appartenuti al blocco sovietico e poi divenuti campioni di liberismo, e ovviamente nei paradisi fiscali. Lo schema che in Italia è stato sponsorizzato da Berlusconi negli anni Novanta, e più recentemente dalla Lega.
Per ora non se ne è fatto nulla, almeno per le imposte sui redditi delle famiglie (giacché l’Ires, l’imposta sul reddito delle società, ha un’aliquota fissa, ora al 24%). A meno che non si sia ricchi, stranieri (o italiani residenti all’estero da oltre nove anni) e intenzionati a fissare la propria residenza in Italia: in questo caso i redditi prodotti all’estero subiscono una tassazione forfettaria di 100mila euro. È quanto ha previsto l’ultima Legge di stabilità, e attuato un provvedimento dell’Agenzia delle entrate dell’8 marzo. Il tutto per attirare i Paperoni nel Belpaese, consentire loro di arricchirsi pagando da noi tasse irrisorie (rispetto alla loro forza economica), di eludere le leggi fiscali del Paese in cui detengono il loro patrimonio, e magari anche di ripulire somme di dubbia provenienza.
Ammettiamo anche che alcune centinaia di Paperoni si facciano convincere, e che dunque lo Stato incassi qualche decina di milioni di euro. Vale la pena incassare questi soldi, una misera mancia rispetto alle dimensioni del bilancio statale, se il prezzo da pagare è la cancellazione del principio di equità sociale che regge il nostro sistema tributario, e quindi di un elemento fondamentale del patto di cittadinanza? Possiamo invocare l’utilità di una misura (peraltro minima e tutta da dimostrare), trascurando che produce ingiustizie insopportabili, indicative delle gigantesche contraddizioni in cui viviamo?
L’Istat ci dice che in Italia quasi l’8% delle persone versano in condizioni di povertà assoluta, ovvero conoscono la fame: una cifra quasi raddoppiata rispetta a dici anni prima, spaventosa per l’ottavo Paese più ricco del mondo. Dove a essere colpiti sono soprattutto i giovani, disoccupati nel 40% dei casi: motivo per cui sono costretti a vivere in famiglia (accade a 7 milioni di loro), o a emigrare in cerca di lavoro (circa 100 mila l’anno scorso, oltre la metà dei cittadini iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero). Il tutto mentre aumenta l’esercito dei working poor: persone che lavorano, retribuite però con salari talmente bassi da non consentire loro di vivere al di sopra della soglia di povertà. Persone per le quali non vale un altro elemento fondamentale del patto di cittadinanza: quello, richiamato dalla Costituzione, per cui tutti sono tenuti a svolgere “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4), potendo però ricavare da essa i mezzi per condurre “un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36).
Ciò nonostante nessuno mette in discussione le ricette che hanno condotto a alla macelleria sociale che ha oramai invaso le nostre esistenze: si continua a tagliare la spesa sociale, proprio mentre se ne ha più bisogno, e ad abbassare le tasse alle imprese, e ora ai ricchi, nella speranza che in questo modo si possano attirare investitori esteri. E nel contempo si precarizza il lavoro, cancellando diritti e aprendo così la strada verso ulteriori compressioni del salario.
È questa l’essenza del confitto, oramai sempre più drammatico, tra lavoratori inchiodati alla dimensione territoriale e imprese sempre più sradicate da quella dimensione: sempre più ridotte a impalpabili flussi dell’economia finanziaria. Un conflitto alimentato dagli Stati, capaci solo di assecondare il dilagare di questi flussi, di incoraggiarli attraverso una corsa al ribasso tra chi offre le migliori condizioni per le imprese, e di riflesso le peggiori per i lavoratori. Imprese oramai capaci di scrivere le regole del gioco, e lavoratori tutt’al più destinatari di elemosine elettorali.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 13 marzo 2017 riprendendolo da MicroMega dello stesso giorno