di Antonia Battaglia
La Puglia, terra di grandi interessi strategico-economici, è nuovamente al centro dello scontro tra ambiente e lavoro, tra economia e diritti dei cittadini. La Puglia dell’Ilva, della centrale Enel di Cerano, del progetto Tempa Rossa, della Xylella, è da qualche giorno anche il teatro di scontro tra la polizia ed i manifestanti del fronte No-Tap.
La Puglia, che probabilmente è anche la Regione con la società civile più attiva del Paese, scende adesso in campo contro la costruzione del Gasdotto TransAdriatico (conosciuto con l’acronimo di Tap, Trans Adriatic Pipeline), progetto volto alla realizzazione di un nuovo condotto che dalla frontiera greco-turca attraverserà la Grecia e l’Albania, per portare in Italia il gas naturale proveniente dal Mar Caspio. Arrivato sulle coste in provincia di Lecce, infatti, il gas estratto in Azerbaigian sarà collegato alla rete nazionale e garantirà l’approvvigionamento che attualmente dipende dall’Algeria, dalla Libia e dalla Russia.
Le implicazioni geopolitiche ed economiche dell’indipendenza dalle risorse di gas che vengono attraverso il nord Africa sono evidenti (la questione Libia con tutte le conseguenze politiche ne è esempio), ma il concetto è che non tutto ciò che implica scelte strategiche nazionali deve accadere a danno della Puglia.
La Tap sarà lunga circa 850 chilometri, di cui 550 circa passano dalla Grecia, più di 200 dall’Albania, 25 sotto le acque territoriali italiane e 8 kilometri sulla terra ferma pugliese, approdando su una delle spiagge più belle della Regione e devastando così terreni che ospitano aziende agricole ed uliveti.
Il punto di approdo del gasdotto è infatti in Salento, nel comune di Melendugno, in prossimità di San Foca. Sul sito internet della Tap è scritto che “la scelta della localizzazione del punto di approdo e del tracciato a terra è stata fatta tra diverse alternative, al fine di individuare la più idonea sotto il profilo ambientale, sociale e della sicurezza”.
Nei giorni scorsi ci sono stati degli scontri tra polizia e manifestanti davanti al cantiere in località San Basilio, in provincia di Lecce, dopo il via libera del Ministero dell’Ambiente che ha autorizzato la rimozione di oltre 200 ulivi sul tracciato del gasdotto.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, con decreto del 21 marzo 2016, aveva ingiunto ai proprietari dei fondi agricoli che devono essere sventrati per permettere l’installazione del tubo, un atto di “occupazione temporanea non preordinata alla espropriazione”. La Tap, c’è scritto sul decreto, ha la facoltà di occupare i terreni per un periodo di tre anni e sei mesi dalla data di immissione in possesso delle aree.
Un atto forzato, quindi, una presa di possesso di un territorio che è culla di turismo e ricchezze agricole.
I comitati No-Tap ed i numerosi gruppi di attivisti protestano da anni contro la costruzione del metanodotto ed anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, candidato alle primarie del PD, ha criticato duramente il progetto portato avanti dal Governo. Ma le autorizzazioni necessarie sono state concesse ed i lavori sono cominciati.
Il costruttore è un consorzio, tra i quali figura l’italiana Snam. L’opera è stata finanziata con l’aiuto della Banca Europea per gli Investimenti, perché la Tap è riconosciuta dall’Unione Europea quale “Progetto di Interesse Comune”. Essa, infatti, si legge sul sito della Commissione Europea, “migliorerà la sicurezza e la diversificazione dell’approvvigionamento europeo dell’energia”.
Un’opera ambiziosa e necessaria per gli interessi energetici europei, quindi. Ma con un impatto devastante su una delle Regioni più belle del Paese. Perché una volta sulla terraferma, il tunnel proseguirà sotto terra ma lungo il suo percorso dovranno essere rimossi, secondo quanto si apprende da diverse fonti in loco, più di 2.000 ulivi, per permettere lo scavo della trincea dove sarà posato il tubo.
Nel comune di Melendugno sorgerà il terminale di ricezione, con il centro di controllo per l’immissione del gas all’interno della rete nazionale. Il consorzio Tap dice che l’impianto non dovrebbe produrre una quantità significativa di emissioni, visto che il gas non richiede alcuna lavorazione e non ne è previsto lo stoccaggio.
Ma la Puglia non ci sta. Le amministrazioni locali sono scese in piazza la settimana scorsa: i sindaci di Castro, Gallipoli, Caprarica, Zollino, Carpignano, Castri, Martano, Cannole, Calimera, Vernole, Lizzanello, Corigliano e Ortelle hanno lanciato un appello al Governo affinché riconsideri il punto di approdo del metanodotto.
Ma cosa si chiede al Governo? Il nodo della questione non è che il gasdotto non si faccia ma che il punto di approdo venga trasferito in un’altra area, a circa trenta km da San Foca, nell’area industriale a sud di Brindisi.
Brindisi però non ci sta. Il sindaco di Squinanzo ha dichiarato, infatti, di esser disponibile a parlare di approdo della Tap a patto che si proceda prima alla riconversione da carbone a gas della centrale Enel di Cerano, altra grave criticità ambientale, che da anni provoca un aumento dei morti di tumore in tutta l’area a nord del Salento.
Il Presidente della Regione Michele Emiliano ha dichiarato di recente che il comune di Squinzano avrebbe tutto l’interesse ad ospitare l’opera, perché tanto le spiagge della zona di Cerano sono, causa inquinamento, già off limits. Che il progetto si debba fare, quindi, pare non ci siano dubbi. Resta il dove, resta il come.
“Ci sono troppe incongruità che danno l’idea che il gasdotto debba per forza arrivare lì, nonostante il parere delle popolazioni locali. Questo è un modo di governare che scarica tutto sulla polizia, a cui va anche la mia solidarietà perché i poliziotti salentini devono contrapporsi ai loro fratelli contadini”, ha dichiarato Michele Emiliano.
Perché relegare decisioni di questo tipo al confronto tra polizia e manifestanti è un atto inaccettabile dal punto di vista politico, soprattutto in una Regione come la Puglia a grande densità di interessi strategici e di conflitti ambientali irrisolti che gravano sulle spalle della popolazione.
Mentre non lontano dal Salento si decide il futuro dell’Ilva e di Taranto con il passaggio ai nuovi acquirenti del Gruppo Ilva, a pochi chilometri si gioca l’ennesima partita fondamentale per la Puglia e per quel cambio di paradigma da sviluppo insostenibile a sviluppo sostenibile che tarda a farsi realtà, e di cui il nostro Paese ha urgente bisogno.
È mancato di nuovo, infatti, il coinvolgimento della popolazione in scelte politiche fondamentali che toccano il vivere quotidiano delle persone.
Lavorare ad un programma di governo che sia meno schizofrenico e più costruttivo appare un’esigenza improcrastinabile, quanto quella di disegnare un piano nazionale di sviluppo economico del Paese che parta dalla presa di coscienza che sacrificare ambiente e salute in favore delle grandi opere non sostenibili non è la scelta che può valere sempre e comunque.
Dal referendum sulle trivellazioni dell’aprile dell’anno scorso è emersa una grande verità, la stessa che scende in campo oggi con i manifestanti No-Tap. Che gli Italiani hanno scelto, in gran parte, un modello di sviluppo che sappia coniugare la vita con l’economia.
Con quel voto milioni di persone avevano espresso la propria opinione de facto su quanto fosse necessario lavorare per rafforzare il concetto che l’ecologia e l’economia sono due facce della stessa medaglia e che non è possibile attuare ancora dei modelli di sviluppo economico che vadano contro ambiente e persone. Una grande parte del Paese aveva votato per dire “no” ad un sistema energetico basato sull’uso indiscriminato dell’energia fossile.
La realtà è che il Paese sta cambiando, che non sono più solo associazioni ambientaliste ed attivisti a chiedere una nuova idea di economia e che la green economy e la blue economy non posso essere più trattate come argomenti da salotto che lasciano il tempo che trovano, perché ambiente e salute fanno parte del corredo di diritti inalienabili di ogni cittadino.
Con i lavori della Tap in Puglia, la democrazia fa un passo indietro fragoroso e si allontana dalla presa di coscienza della realtà: democrazia e sviluppo non posso essere gestite con atti di ingiunzione e semi-espropri di terreni ma, in quanto decisioni sul futuro del Paese, esse devono essere parte integrante dei diritti dei cittadini e ad esse i cittadini devono partecipare.
Mai come in questo caso ambiente e economia avrebbero dovuto potersi combinare.
Il governo, nell’intento di realizzare un’opera strategica di portata internazionale, pretende di farla arrivare su una delle più belle spiagge dell’Adriatico pugliese. Spostarla trenta chilometri più a nord, se ci sono le condizioni per poterlo fare, consentirebbe di far arrivare il tubo in un’area già compromessa dalla presenza dell’industria, a ridosso della centrale Enel di Cerano. Soluzione lontana dall’essere ideale, ma forse l’unica che potrebbe garantire la salvaguardia delle spiagge e dei terreni interessati dalla devastazione che il progetto inevitabilmente comporta.
Anita Rossetti, attivista conosciuta in Puglia per le sue attività anti-mafia, racconta con sgomento del presidio dove manifestano pacificamente mamme con bambini, nonni, studenti, tutti insieme per testimoniare un amore senza fine per la propria terra, per le proprie radici.
Il Governo, in Puglia, si mette di nuovo contro la gente, addirittura contro i sindaci, calpestando i diritti più elementari della Costituzione Italiana, facendo sgomberare cittadini inermi che portano avanti una rivoluzione che nasce dal basso, gioiosa e passiva.
Non si sarebbe dovuti arrivare a questo punto. Lo scontro tra cittadini e polizia, davanti ad un cantiere per la costruzione di un gasdotto, testimonia di un grave e profondo scollamento della politica dalla volontà popolare.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 30 marzo 2017