di Claudio Cossu
Ha scritto Elena Loewenthal (Add ed. Torino, 2014): “Appena il treno giunse ad Auschwitz – erano circa le ore 21 del 26 febbraio 1944 -, i carri furono rapidamente fatti sgombrare da numerose Ss, armate di pistola e provviste di sfollagente; e i viaggiatori obbligati a deporre valigie, fagotti e coperte lungo il treno. La comitiva fu tosto divisa in tre gruppi: uno di uomini giovani e apparentemente validi, del quale vennero a far parte 95 individui; un secondo di donne, pure giovani – un gruppo esiguo, composto di sole 29 persone – e un terzo, il più numeroso di tutti, di bambini, di invalidi e di vecchi… Si ha ragione di credere che il terzo sia stato condotto direttamente alla camera a gas di Birkenau e i suoi componenti trucidati nella stessa serata…”
Come si fa a scendere a patti con una storia così? Come si fa a farci i conti? A togliersela dalla testa, a non trasformarla in un’ossessione, a evitare che ti si aggrovigli dentro? A pensare che possa lasciarti in pace anche soltanto per un momento, per tutti i giorni della tua vita? Rimuovere la Shoah dall’universo della mia coscienza e del mio inconscio, soprattutto.
Ebbene, a questa tentazione, a questa volontà di rimozione, io dico con determinata fermezza: no. Voglio che il ricordo di tutto questo orrore resti incatenato a una perenne immobilità, voglio incatenare la visione di quei vagoni piombati, la sofferenza di quelle torture, quel numero tatuato sul braccio di ognuno, quelle urla disumane dei guardiani, quel latrare di cani, quelle fucilazioni di massa.
Voglio avere sempre nella retina dei miei occhi quelle sopraffazioni che esseri umani sono riusciti a compiere su altri esseri simili, le discriminazioni, tutte le discriminazioni, la follia della razza pura, concepita da scienziati assoldati dal fanatismo di quel regime assurdo. Avere sempre presente la scritta “Arbeit macht frei”, circondata dal filo spinato del lager di Auschwitz, le sperimentazioni pseudo – scientifiche sui corpi dei bambini, “il manifesto della razza”, le leggi razziali, i cartelli sulle vetrate dei caffè come “proibito entrare ai cani ed agli ebrei”.
Perché finalmente non si abbiano dubbi che anche soldati dalle divise italiane hanno aiutato i nazisti a compiere quei crimini tremendi. D’accordo, esiste il rischio che il Giorno della Memoria diventi una cerimonia stanca, un rituale vuoto, un momento di finta riflessione, ma sta in noi dargli ad ogni occasione nuova vita e nuovi contenuti, privi di retorica, affinchè non divenga una semplice esibizione di vittime in cerca di commiserazione o richieste di incongrui risarcimenti. Questa deve essere la nostra cultura civile per la vita, per tutta l’umanità. Perché la nostra coscienza, quella dei nostri figli e dei posteri non potrà mai più sopportare il culto della morte e della selezione, della violenza e della sopraffazione.