di Sergio Sinigaglia
Emergenza. È la parola chiave proposta per ogni situazione difficile. Soprattutto se si parla di eventi legati alla gestione del territorio. Alluvioni, frane, terremoti. È sempre emergenza. Una calda coperta sotto la quale la classe dirigente si copre al riparo da qualunque responsabilità. Così è stato anche in questi giorni. Tre scosse di terremoto sopra la magnitudo 5 e una forte nevicata.
“Si è verificata una emergenza con l’accavallarsi di eventi straordinari”. E questo basta per sentirsi la coscienza a posto. Ma è davvero così? Dalla prima ondata sismica sono passati sei mesi, poi c’è stata la seconda fase a fine ottobre. Le rassicurazioni riguardanti la garanzia che l’inverno non avrebbe colto di sorpresa chi di dovere sono state parole al vento.
La parte di popolazione che ha scelto (giustamente e comprensibilmente) di rimanere nei territori, soprattutto coloro che hanno in loco una attività economica, in particolare gli allevatori, avevano sottolineato quanto fosse necessario approntare delle strutture in grado di riparare persone, animali e cose dal rigore invernale. Nello stesso tempo erano state date ampie garanzie per quanto riguarda l’allestimento di prefabbricati per ospitare chi aveva scelto di restare.
Le temperature relativamente miti fino a dicembre avevano favorito i possibili lavori. Invece con l’arrivo delle massicce nevicate degli ultimi giorni è andato in onda uno spettacolo vergognoso. Prendiamo le Marche. Le autorità avevano garantito che per il 9 gennaio sarebbero state pronte 69 stalle. Nella data in questione ne erano stata installate due e, a quanto sembra, neanche funzionanti. All’improvviso ci si è accorti che la ditta , che aveva vinto l’appalto, non era in grado di fare fronte alla situazione.
Inefficienza della pubblica amministrazione? Forse, ma anche una legislazione, come ci spiega chi conosce bene la macchina burocratica, che negli ultimi anni ha prodotto normative problematiche, discutibili, che garantiscono il “privato”, per esempio con “l’autocertificazione”, ma che rendono difficile da parte dell’Ente in questione la capacità di controllare se chi ha avuto l’appalto è in grado di dare le dovute garanzie. E a proposito di burocrazia di fronte alla tragedia di Rigopiano (che evidenzia l’assurdità di chi pensa sia possibile costruire anche in zone che il buon senso e il rispetto dell’habitat naturale consiglierebbero di lasciare libere dall’insediamento umano) così come a quella delle zone isolate dalla neve, in tanti si sono chiesti perché non fossero impiegati elicotteri, mezzi dell’esercito.
Così si è “scoperto” che gli elicotteri sono rimasti fermi per un rimpallo d responsabilità tra corpi dello Stato, mentre i mezzi cingolati dell’esercito sono ormai ridotti a poche centinaia di unità, a fronte di un numero di alcune migliaia di macchinari fino a non molto tempo fa. Sull’esercito, inoltre, andrebbe fatta una riflessione in merito alla scelta fatta anni fa di cancellare il servizio di leva. Una decisione non casuale, in linea con le nuove guerre globali. Gli eserciti (professionali) oggi, ancora più di allora, servono per i conflitti militari, non certamente a sostenere le popolazioni colpite da eventi climatici o terremoti. E i risultati sono quelli di questi giorni.
Intere zone rimaste isolate perché, udite, udite, sull’Appennino ci sono state nevicate “eccezionali”. Il risultato è stato sotto gli occhi di tutti: turbine rimaste ferme o arrivate con giorni di ritardo e in numero risicato, mezzi analoghi idem. Questo ovviamente a fronte dell’impegno generoso dei volontari e dei tanti che si sono prodigati. In primis coloro che a Rigopiano sono riusciti a salvare la vita ad alcune persone che erano nell’albergo rimasto sotterrato dalla valanga.
Il quadro sommariamente descritto ci riporta ad una questione centrale: lo smantellamento della cosa pubblica, in tutte le sue articolazioni, dovuto al furore liberista, ai diktat dell’Unione Europea. I continui tagli ai bilanci che portano alle conseguenze evidenti a tutti. Ma non basta. Una considerazione va anche fatta sulla Protezione Civile nazionale (così come su una classe di governo inadeguata, per usare un eufemismo, genuflessa sugli ordini che arrivano da Bruxelles) sicuramente sottoposta ad una cura di tagli e ridimensionamento, conseguenza in parte della scandalosa gestione di Bertolaso, ma al di là dello slancio e dell’impegno dei singoli volontari e dei tecnici, bisognerebbe iniziare a domandarsi sui suoi limiti.
A fronte di questo quadro poco edificante, c’è una rete civica e sociale che già dopo il 24 agosto e anche in questi giorni si è costituita per iniziativa di associazioni di base, di movimento, le quali consapevoli dell’incapacità cronica, per motivi sopra riportati, dello Stato di dare una risposta adeguata alla grave situazione, sostenendo le popolazioni colpite dal terremoto e dall’ondata di maltempo.
Era accaduto a fine agosto, con le Brigate di solidarietà attiva, già protagoniste dopo il sisma abruzzese del 2009, l’impegno di alcuni centri sociali e la nascita di “Terre in moto” con il preciso scopo di dare dal basso supporto alle popolazioni colpite Una mobilitazione che si è rafforzata dopo le scosse di ottobre ed è stata protagonista in queste giorni. Nelle Marche, proprio per iniziativa dei centri sociali, in particolare di Senigallia e Ancona, è stato portato sostegno ad alcune aziende del biologico.
In particolare proprio a Senigallia domenica 15 gennaio più di trecento persone hanno riempito il teatro comunale per partecipare alla chiusura della campagna solidale “Il bio che non trema”. Sabato scorso un folto numero di giovani di Ancona del centro sociale locale e delle associazioni Ora e A2O, è andato in soccorso di un’azienda vicino ad Amandola, presso l’azienda agricola “Marchese”. “Senza di loro non ce l’avremmo fatta, vista l’assenza dello Stato”. Su un altro fronte è notizia di queste ore che un importante agricoltore piemontese ha deciso di regalare quintali di fieno ad un’azienda di Offida. Sono tutti esempi, diversi fra loro, di una società civile autorganizzata che sopperisce al vuoto statale, provvedendo autonomamente a dare vita ad una “protezione civile alternativa”, pur non avendo spesso i mezzi sufficienti.
Allora questa ennesima vicenda ci impone una domanda: in un paese come il nostro in cui il governo del territorio è nello stato attuale, è possibile dare vita ad una rete che veda associazioni di base, amministratori locali, imprese virtuose, tecnici delle professioni, fare società”, per evitare che i cittadini continuino a pagare le conseguenze di scelte sbagliate? In sostanza, “un’altra protezione civile è possibile?