di Gian Marco Martignoni
Da quando il futurologo Daniel Bell ha coniato la definizione di società post-industriale, la tesi della perdita di rilevanza e di centralità del lavoro è diventata dominante nella teoresi di gran parte dell’intellighenzia marxista o post-marxista.
Come è noto la tara dell’eurocentrismo gioca brutti scherzi, sicché scambiando la parte per il tutto si è con estrema rapidità passati dall’«addio al proletariato» di André Gorz alla «fine del lavoro» preconizzata da Jeremy Rifkin, nel mentre Antonio Negri e Michael Hardt recuperavano dal filosofo olandese Baruch Spinoza il termine di “moltitudine”, in concomitanza, a loro avviso, del passaggio epocale al cosiddetto “capitalismo cognitivo”.
Al contempo Jurgen Habermans, ovvero il massimo esponente della “Scuola di Francoforte”, individuando nella scienza «la principale forza produttiva», è giunto al punto di negare validità alla teoria del valore-lavoro.
In questo contesto disorientante è pertanto benvenuta la riedizione aggiornata e ampliata della ricerca Il lavoro e i suoi sensi (Edizioni Punto Rosso: pag 244, euro 15) di Ricardo Antunes, svolta all’Università del Sussex – in Inghilterra – in stretta relazione con Isrvan Meszaros: il sociologo brasiliano affronta con uno sguardo di portata globale la nuova morfologia del lavoro e le sue continue trasformazioni, all’interno di quell’accumulazione flessibile che contraddistingue l’odierna totalità capitalistica.
Infatti, se con gli studiosi dell’economia mondo consideriamo quanto è avvenuto mediante la nuova divisione internazionale del lavoro nelle periferie e nelle semi-periferie del capitalismo globalizzato, paradossalmente «la classe che vive del lavoro» si è enormemente estesa rispetto alle tendenze che hanno violentemente investito l’Occidente capitalistico.
Detto in altri termini non solo siamo in presenza di un processo di proletarizzazione generalizzata, ma la nuova configurazione del lavoro accanto al proletariato industriale, rurale e dei servizi, vede crescere (per via della precarizzazione e della de-contrattualizzazione della forza-lavoro) l ‘area di chi sopravvive nei gironi degradati e infernali dell’economia “informale” o ha visto svanire la nozione di stabilità correlata al tradizionale rapporto di lavoro.
Insomma non è possibile comprendere il concetto di lavoro “dignitoso” sostenuto dall’Organizzazione internazionale del lavoro e dalle organizzazioni sindacali mondiali, o quello di “buen vivir” avanzato dai popoli dell’America Latina, se non prendiamo in esame le nuove forme di estrazione del plusvalore, il deterioramento delle condizioni di lavoro e l’ intensificazione dello sfruttamento del lavoro – sia manuale che intellettuale – a partire dall’impressionante incremento, variabile per aree geografiche, della durata della giornata lavorativa.
L’imponenza di questi fenomeni e la rinnovata centralità del lavoro vivo riconfermano, per dirla con le parole di Samir Amin, la validità della legge del valore-lavoro mondializzato, che ricomprende nell’annosa disputa anche l’area del lavoro immateriale.
Fra l ‘altro per Antunes la messa in concorrenza della forza-lavoro su scala mondiale è rivelatrice sia della natura illusoria del compromesso keynesiano-fordista realizzato nei “trent’anni gloriosi” successivi al dopoguerra, sia della fallacia delle politiche socialdemocratiche, stante anche i molecolari processi di integrazione che hanno investito il movimento operaio.
Infine l’ analisi impietosa che Antunes compie a proposito della mutazione genetica del New Labour di Tony Blair, sulla scorta della “terza via” elaborata da Anthony Giddens, è assai utile per comprendere su scala europea per quali ragioni i governi approdati a politiche social-liberiste siano in prima fila nell’opera quotidiana di demolizione dei diritti del mondo del lavoro.
Questo articolo è stato pubblicato dalla Bottega del Barbieri il 30 novembre 2016