Il paradosso turco: una democrazia senza liberalismo

25 Luglio 2016 /

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Colpo di Stato in Turchia
Colpo di Stato in Turchia
di Nadia Urbinati
I turchi che vivono nei paesi occidentali seguono con giustificata ansia le vicende del loro paese. Seyla Benhabib [1] si dice profondamente scossa dagli eventi che si succedono veloci e gravidi di implicazioni. Ebrea, nata e cresciuta in Turchia, Benhabib è una delle più note e apprezzate teoriche politiche, allieva di Jürgen Habermas e docente prima ad Harvard e ora a Yale e a Columbia, animatrice del progetto Reset Dialogue on Civilizations che organizza ogni anno una settimana di seminari di studio alla Bilgi University di Istanbul.
La conversazione che abbiamo avuto in queste ore è una testimonianza del sentimento di incertezza e di ambiguità che lontano dal Bosforo si avverte, soprattutto nella comunità turca. Come sono state recepite le immagini, le notizie che si sono accavallate confuse in queste ore tragiche a partire dal tentativo di golpe, poi fallito, di venerdì notte?
È difficile per chi vive in Occidente ed è cresciuto con i valori della democrazia e del pluralismo, della libertà religiosa e della tolleranza, far quadrare il cerchio quando deve commentare le vicende drammatiche che sta attraversando questo grande paese, giunto a definire la sua identità nazionale dopo la fine rovinosa dell’Impero Ottomano multietnico, grazie a un leader militare rivoluzionario, Mustafa Kemal Atatürk (letteralmente “padre dei turchi”) che ha, in uno stile hobbesiano, costruito lo Stato mediante l’assoggettamento della religione e del clero islamici.

Come ricorda Benhabib, su questa ferrea unità la Turchia ha nei decenni avviato la modernizzazione della società, conquistato una posizione internazionale di rilievo (alleato chiave della Nato), per cominciare infine un lungo e travagliato percorso di avvicinamento e collaborazione con l’Unione europea. Contenere la democrazia e contenere il potere religioso sono andati insieme per decenni, motivando anche i cinque colpi di stato che dal 1960 si sono succeduti, fino a questo recentissimo.
«Un colpo di mano antidemocratico ha tentato di rovesciare un Presidente non democratico! », ecco il paradosso messo in luce da Benhabib. «Erdogan è stato eletto democraticamente ed è oggi il leader di un regime illiberale e antiliberale da manuale: capo di una democrazia maggioritarista che ha violentemente chiuso la bocca alla minoranza curda, che ha violato e limitato le libertà civili dei turchi; che ha attaccato i media indipendenti e in diversi casi soppresso la loro voce e quella dei social network, che ha perseguitato insegnanti e gravemente manomesso la libertà di insegnamento». È questo il paradosso di una democrazia senza liberalismo o esplicitamente antiliberale.
La tensione che Benhabib mette in evidenza è questa: «Mentre non può venire alcuna soluzione democratica dai carri armati nelle piazze o dagli spari contro i ministeri e i resistenti, è tuttavia naïf celebrare il regime di Erdogan come un regime democratico che ha eroicamente resistito contro i militari». Un governo democraticamente eletto può avere nel corso del suo lungo mandato – questo è il caso del governo turco un’evoluzione che con la democrazia costituzionale ha poco da spartire. È in effetti la dimensione dei diritti quella sacrificata, ed è una democrazia illiberale quella che si è in questi anni consolidata in Turchia.
Benhabib tocca così il tema centrale e spinosissimo del rapporto tra la religione e lo Stato, la questione del processo di islamizzazione delle istituzioni che questo fallito colpo di stato ha messo in evidenza e che, forse, potrebbe contribuire a rafforzare, usato come pretesto per mettere a segno epurazioni punitive ben oltre le responsabilità accertate di chi ha cospirato con i golpisti. «Le immagini delle folle che ho sentito cantare “Allah è grande” mentre si opponevano ai carri armati la scorsa notte mi hanno fatto pensare alle masse di Mohamed Morsi in Egitto contro cui l’esercito attuò il colpo di Stato nel luglio 2013, anche se i dimostranti turchi cantavano l’inno nazionale. L’esercito turco non è islamizzato – ci sono probabilmente degli infiltrati ultranazionalisti al suo interno e, certamente, alcuni seguaci Gulenisti – ma c’è già chi sospetta che questo abortito colpo militare fosse stato pianificato dai colonnelli di rango intermedio, mentre è indubbio che gli alti comandi siano leali al regime – questo spiega del resto il fallimento del tentativo di golpe».
Secondo la Cnn i golpisti nell’esercito ora arrestati sarebbero migliaia, e così i giudici rimossi dal loro incarico: sono notizie che non devono stupire, conclude Benhabib, poiché si è trattato di un tentativo anche sanguinoso di sovvertire un governo legittimo. Ma la situazione resta drammatica.
La speranza che le giuste reazioni si trasformino in un’opportunità volta a rafforzare la democrazia turca sembra tenue, mentre sono realistiche le preoccupazioni che il fallito golpe, dopo le polarizzazioni innescate ad arte per ampliare il raggio delle repressioni e colpire gli oppositori civili (e legittimi) al governo di Erdogan, diventi un pretesto per giustificare un altro giro di vite illiberale nella già poco liberale democrazia turca.
[1] Seyla Benhabib, nata a Istanbul 65 anni fa, è una studiosa turca. Docente di scienze politiche e filosofia all’università di Yale, è autrice di numerosi saggi in cui combina teoria critica e femminismo.
Questo articolo è stato pubblicato da Libertà e giustizia il 19 luglio 2016

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