di Rita Monaldi e Francesco Sorti
Dopo il primo turno delle presidenziali in Austria, che ha visto trionfare il candidato populista della FPÖ Norbert Hofer, Claudio Magris sul Corriere ha suonato l’allarme definendo l’Austria (citazione da Karl Kraus) il “termometro della fine del mondo”. Domenica prossima, 22 maggio, ci sarà il ballottaggio tra il 45enne Hofer, attualmente in vantaggio nei sondaggi, e il 72enne Alexander van der Bellen, attorno al quale si sono coalizzati de facto gli altri partiti. Tutta Europa sta seguendo ansiosa questa buriana elettorale, si ricordano le sanzioni già applicate a Vienna dalla UE ai tempi del defunto Haider e si temono i focolai estremisti sempre latenti nella repubblica alpina d’oltreconfine.
In realtà, poco importa chi vincerà. Una sconfitta di Hofer non significherà affatto che potremo tirare un sospiro di sollievo. Infatti a Magris, e probabilmente a chiunque non viva la realtà austriaca dal di dentro, sembra sfuggire che nella repubblica danubiana, tutti i partiti sono (più o meno dichiaratamente) ostili all’immigrazione, con l’unica vistosa eccezione dei Verdi.
Le clamorose espulsioni di famiglie provenienti dall’ex Jugoslavia, da anni perfettamente integrate e cacciate dal suolo austriaco solo perché prive di un passaporto “made in EU”, sono state decise, avallate o tollerate non dall’estrema destra della FPÖ ma dalle forze politiche che sono da sempre al governo: i cristiano-sociali (ÖVP) e i socialdemocratici (SPÖ). Lo stesso van der Bellen, malgrado la provenienza dalle file dei Verdi, si è proposto come candidato indipendente e ha tappezzato i muri con manifesti elettorali inneggianti a un patriottismo che ricorda tanto quello del nostro Ventennio.
Dietro alla sua foto giganteggia come slogan, di volta in volta, una sola parola, che occupa tutto lo spazio: PATRIA, NOI, AUSTRIA. E sullo sfondo, paesaggi tirolesi, o le arcate gotiche del Rathaus (il municipio di Vienna), oppure passanti di strada dai visi d’impronta rigorosamente mitteleuropea. Una campagna elettorale che calzerebbe a pennello alla destra, come ha notato il quotidiano (progressista) Der Standard.
Il welfare austriaco è notoriamente molto forte e radicato, il mercato del lavoro è ancora vitale, a livelli assai lontani da quelli dell’Italia: lo sanno bene le migliaia di italiani che si riversano qui da qualche anno. Il problema, e questo Magris manca di rilevarlo, è proprio nel welfare: non si vuole condividere a occhi chiusi, a torto o a ragione, il nostro benessere con gli “altri”.
Più concretamente Angelo Bolaffi su Repubblica ha segnalato che il 70% del ceto operaio (tradizionalmente socialdemocratico) ha votato FPÖ. Ma più ancora che punire la pluridecennale coalizione spartitoria di cristianosociali e socialdemocratici, come sostiene invece Bolaffi, gli elettori del populista Hofer hanno chiaramente protestato contro la possibile sparizione dello stato sociale, della cui difesa gli xenofobi della FPÖ si fanno fa tempo un punto d’onore. Ancora una volta, è chiaro, escludendo gli immigrati.
Arriviamo così al paradosso che riguarda l’Austria, ma anche gli altri stati membri della UE a nord delle Alpi, dove si stanno risvegliando diffidenze estremistiche: il welfare sviluppato e radicato nella società mitteleuropea può incentivare – anziché arginare – xenofobia, razzismo e rifiuto dell'”altro”. Pochissimi infatti sono disposti a condividere i vantaggi dello stato sociale con i “nuovi arrivati”. Non a caso il partito socialdemocratico austriaco (dominante da cinquant’anni nella giunta viennese, e da sempre membro della maggioranza di governo) è per tradizione antieuropeista, localista, campanilista. Manca una vera cultura della tolleranza e della solidarietà. Lo stato dà, distribuisce, elargisce, ma non insegna a condividere. La società resta profondamente frazionata. Le classi sociali si guardano l’un l’altra con diffidenza.
La paura è figlia dell’ignoranza. La crescita dell’ultra-destra è pertanto l’acutizzazione di una malattia cronica dell’Austria contemporanea: la scomparsa vertiginosa, nel sistema culturale, dell’educazione al pensiero. Lo spirito del welfare non dovrebbe essere (come invece credono molti immigrati e anche parecchi austriaci) “qui si mangia, si beve e si balla”, bensì “qui si ragiona e ci si rispetta tutti”. Ma al welfare, ossia a ragionamento e rispetto tradotti in sistema sociale, si deve venire educati. Di qui l’importanza capitale del sistema scolastico e culturale di ogni Paese. Ecco il tasto dolente, da cui originano tutti gli altri: l’ignoranza. È il vero problema dell’Austria, e ha ovviamente un valore esemplare per tutti i paesi “fratelli” della UE.
Non è una questione di partiti, ma di storia. Claudio Magris nel suo intervento sul Corriere ha scritto che esisterebbero due Austrie: “una grande Austria sovranazionale”, “pluri-nazionale”, “il cui imperatore si rivolgeva «ai miei popoli»”, alla quale si opporrebbe “un’Austria diametralmente opposta, torva gretta; quella che nel 1938 ha accolto tripudiante «l’invasore» Hitler”.
Anche noi italiani, a dire il vero, nel 1938 abbiamo “accolto tripudianti” Hitler in visita a Mussolini e abbiamo affollato giubilanti piazza Venezia durante tutto il ventennio, ma questo non significa nulla: a parte le masse dei primi martiri cristiani, non è mai esistito né esiste un popolo al mondo che non abbia, almeno apparentemente, “accolto tripudiante” un dittatore al colmo del potere e armato fino ai denti. Lo stesso Karl Kraus che Claudio Magris ha invocato ironizzò ferocemente sulla caramellosa e irrealistica visione, che Magris invece fa sua, del buon vecchio imperatore Francesco Giuseppe, senza ricordarci che chiamava “i miei popoli” le nazioni invase e oppresse da Vienna.
La pretesa “Austria plurinazionale” applaudita da Magris, ingrassava senza far fatica le casse dell’Impero grazie all’embargo commerciale posto all’industrioso lombardo-veneto, e ballava il valzer al ritmo delle esecuzioni capitali dei “nazionalisti” italiani. Esecuzioni per le quali, come riferisce sempre Karl Kraus, il “buon padre” Cecco Beppe mandava luciferinamente il conto del boia ai parenti dei giustiziati.
La denominazione “nazionalisti italiani” forse stupirà: l’abbiamo presa dalle pochissime righe che i testi oggi in uso nelle scuole austriache dedicano ai protagonisti del nostro Risorgimento. Sui manuali scolastici di storia che i nostri figli si vedono fornire dalle scuole pubbliche viennesi, infatti, non si legge certo che gli italiani ne hanno passate di tutti i colori sotto il dominio austriaco, bensì che furono certi “nazionalisti guidati da Garibaldi” a rovinare tutto (citato una sola volta, proprio così, col mero cognome; di Cavour, Mazzini e gli altri, invece, non compare neppure quello).
In un riquadro sulla pagina accanto si spiega – con tanto di foto di estremisti di destra nel 2010 (peraltro non austriaci bensì tedeschi) – chi siano i nazionalisti: gente che “esalta le capacità della propria nazione e disprezza quelle altrui, maltratta o perfino minaccia le minoranze etniche e, infine, è guidata da rappresentanti che si comportano in modo spesso molto aggressivo”. Ecco, questo è il poco edificante ritratto di Garibaldi nei manuali scolastici austriaci.
Distinzioni tra i nostri risorgimentali e i nazionalisti odierni non vengono fatte, anzi: il paragrafo in questione è intitolato in italiano, con traduzione accanto, “L’Italia per noi – Italien für uns”, quasi a voler dare l’impressione che questo motto inventato dagli autori del manuale in un bizzarro italiano, il cui suono ricorda agli austriaci il mussoliniano “a noi!”, fosse lo slogan del Risorgimento… Un capitolo intero del manuale è invece dedicato alla lotta contro il nazionalismo da parte del buon Francesco Giuseppe, che avrebbe cercato “di soddisfare la popolazione con una buona amministrazione e col miglioramento delle condizioni di vita”. Concetti ripetuti ben tre volte in due pagine.
Passiamo dalle scuole ai musei. Se si visita il museo nazionale di storia militare di Vienna, si percorreranno ampie sale dedicate alle campagne vittoriose in Italia, con dovizia di cimeli, cartine, documenti originali, descrizioni e ricostruzioni, inclusa la glorificazione del generale Radetzky, tuttora un eroe nazionale a cui sono intitolate vie e piazze (tanto da incontrarne ritratti perfino alle pareti di alcuni ristoranti); invano tuttavia si cercheranno tracce delle battaglie e dei sommovimenti politici con cui l’Austria venne infine cacciata dal nostro paese.
Il Risorgimento è completamente sottaciuto. Da un colto docente viennese di sinistra abbiamo udito che l’Austria in Italia fu “una madre severa ma giusta”. Dai musei alle librerie: la letteratura d’epoca imperial-regia va fortissimo, tanto che nelle librerie spuntano sempre nuovi diari di qualche trisavolo: uno dei più recenti è il libro di ricordi di una lattaia che viveva in un sobborgo della capitale asburgica. Anche noi, tuttora innamorati della nostra città di adozione, siamo tra i lettori di questi diari d’epoca, anche quando – ed è la maggioranza dei casi – hanno poco di davvero interessante da dire.
In questo quadro pertanto, stride ancor più che la traduzione tedesca di un classico d’epoca imperial-regia come Le mie prigioni di Silvio Pellico sia fuori commercio da decenni; reperibile solo col print on demand via Amazon. Stesso destino ha subìto il (tutto sommato sincero) diario delle Cinque Giornate di Milano stilato dall’inviato di Metternich, conte Joseph Alexander von Hübner. Da queste parti si insegna fin nelle università che la lingua italiana sarebbe il frutto tardo, artificiale e forzato della politica risorgimentale. Vi sono linguisti che non sanno nulla dell’Accademia della Crusca e del suo Vocabolario, e neppure che è Dante Alighieri (e non Garibaldi) il padre della lingua italiana.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 18 maggio 2016