di Sergio Sinigaglia
Il 6 maggio del 1976 il Friuli fu colpito da un terremoto devastante. La prima scossa di magnitudo 6,4 della scala Richter si abbatté su Udine e le altre località della regione poco dopo le 21. I morti furono quasi mille, novecentottantanove per la precisione, centomila gli sfollati, diciottomila le case distrutte, settantacinquemila quella danneggiate. Il conto dei danni ammontò a 4.500 miliardi di lire, 18,5 miliardi in euro.
Chi scrive era a Udine da alcuni mesi come militante di Lotta Continua. Finito il servizio militare, durante il quale vissi da protagonista la stagione di lotta dei soldati democratici iniziata già da alcuni anni, l’organizzazione mi chiese di proseguire il lavoro politico andando nella regione dove c’era la più alta concentrazione di caserme a livello nazionale.
Ma che Italia era quella del 1976? Ci stavamo avvicinando a elezioni politiche generali di grande rilevanza. Un anno prima l’onda lunga delle lotte del biennio rosso 1968/69, la rivolta studentesca e la mobilitazione operaia del cosiddetto “autunno caldo”, era arrivata fin dentro le urne elettorali con una avanzata incredibile della sinistra, del Partito comunista in particolare, in occasione delle elezioni regionali con la conquista di regioni come Piemonte, Lombardia e Liguria e, come conseguenza del voto, la nascita di innumerevoli giunte progressiste nelle principali città italiane, prima amministrate dalla Dc. Un risultato straordinario al quale secondo molti osservatori e la moltitudine dei militanti sarebbe seguito il fatidico sorpasso a danno della Democrazia Cristiana.
Quel sei maggio poco dopo le 21 stavo entrando in un bar di Udine con il mio amico e compagno di militanza Toni Capuozzo, prima di un attivo di sede proprio incentrato sull’imminente campagna elettorale. La sinistra extraparlamentare dopo una faticosissima. lunga e poco edificante trattativa era riuscita ad arrivare a presentare per la prima volta a livello nazionale una lista unitaria. L’idea era quella di raggiungere un risultato importante in modo, una volta entrati in Parlamento, da condizionare il futuro governo del Pci.
Non facemmo in tempo a ordinare che arrivò la fortissima scossa. In pochi secondi le strade si riempirono di gente terrorizzata. Nella zona dove ci trovavamo non ricordo crolli, ma dopo circa un’ora iniziarono ad arrivare le notizie drammatiche dai paesi. Gemona, Artegna, Cividale, San Daniele, Tolmezzo erano stati colpiti gravemente. In particolare Gemona e Artegna dove si trovava l’epicentro del sisma. Con un gruppo di compagni ci recammo a Gemona.
Del campanile della piazza principale c’era rimasto ben poco; tutto intorno un cumulo di macerie e gente che disperatamente scavava per salvare chi era rimasto sotto la propria abitazione. Anche noi ci mettemmo al lavoro. Lo facemmo tutta la notte. Poi quasi all’alba andammo a casa di una compagna che rimaneva su una collina da cui si poteva vedere tutta la vallata. Le prime luci ci proposero uno spettacolo di distruzione. Ovunque volgevamo lo sguardo c’erano case crollate, sia si trattasse di centri urbani che di case rurali.
Nei giorni successivi furono subito organizzate le tendopoli. Noi iniziammo un lavoro politico che si alternava a un compito di sostegno concreto alle persone colpite. La nostra campagna elettorale fu in sostanza questa. Pensavamo che dopo i giorni della paura sarebbero arrivati quella della lotta, della denuncia delle responsabilità. Il dito era puntato contro chi aveva costruito senza criteri antisismici. Sottolineammo come anche di fronte alle calamità naturali le conseguenze sono diverse per i ceti popolari e “lor signori”. Ma presto verificammo l’orgoglio del popolo friulano, molto diffidente di fronte alle disquisizioni ideologiche e politiche.
Del resto Zamberletti, il dirigente nazionale della Dc che fu rivestito dell’incarico di “commissario straordinario”, si mosse con intelligenza e abilità. I fondi furono gestiti dalla Regione e dirottati alle comunità locali. In dieci anni la ricostruzione fu praticamente terminata. Al contrario di altri tristi esempi indubbiamente la gestione del dopo terremoto divenne un esempio virtuoso, una cosa piuttosto originale per il nostro Paese. Le elezioni del 20 giugno non fecero registrare nessun “sorpasso”.
Il PCI sicuramente ottenne un risultato importante, senza precedenti, ottenendo un 34,4%, ma la DC tenne e si attestò sul 38,7. Il “sorpasso” rimase il titolo di un noto film degli anni Sessanta. La lista “alternativa” si fermò ad un misero 1,5%, esito deludente di una campagna elettorale segnata dalle diffidenze reciproche tra le principali organizzazioni. Alla fine la pattuglia di deputati che entrò per la prima volta in Parlamento fu di sei elementi (se non ricordo male). Fu il prologo a governi appoggiati dal PCI.
Sono tornato in Friuli nel 2012 e ho potuto verificare quanto ci sia di vero nell’indicare la ricostruzione di allora come modello. Purtroppo invece per il resto d’Italia le cose andarono diversamente: entrammo velocemente nella feroce dinamica militare dello scontro tra Stato e BR, che contribuì a soffocare qualunque tentativo di opposizione sociale in un Paese che stata velocemente cambiando il suo assetto socio-economico. Il movimento del 77 durò pochi mesi, ed esplicitò le contraddizioni laceranti che caratterizzavano l’Italia di allora. Poi vennero gli anni Ottanta, quelli della restaurazione neoliberista, anzi “ordoliberale”, con cui stiamo ancora facendo i conti.