di Claudio Cossu
Ormai i media non si occupano più del naufragio di quei quattrocento migranti disperati, partiti dalla Libia, ora se ne ha certezza, ma la cosa non riveste alcuna importanza, non costituisce più una “notizia” degna dei giornali europei e americani, degli schermi televisivi. Appartiene a un triste rituale, un accadimento noioso che va ripetendosi, puntuale: esseri umani affogati, morti nel mare gelido e nebbioso dell’indifferenza di noi tutti, tranquilli e sicuri nelle nostre accoglienti case.
Non dobbiamo fuggire da governi autoritari e oppressivi, guerre o carestie. Noi che ci domandavamo, smarriti, un tempo, se Dio potesse ancora esistere, se forse non fosse morto. Rimanemmo attoniti, in giorni lontani, di fronte alla barbarie dei campi di sterminio, sgomenti ai piedi delle macerie di edifici bombardati, dinanzi ad ossa umane ammassate e gettate in fosse oscure e anonime, cosa possiamo domandarci, noi trasformati oggi in impassibili notai o inerti e indolenti testimoni di un fenomeno, inaspettato ma certo prevedibile, come queste lugubri transumananze umane, fughe disperate attraverso il mar Mediterraneo, divenuto macabro custode di quel che resta delle quattrocento vite vendute per pochi dollari o euro.
D’accordo, un tempo il genocidio di ebrei, rom e sinti era dovuto a un piano studiato con algida accuratezza e precisione, a tavolino, programmato ed eseguito con determinazione in un precipizio di burocratica e cruda efferatezza. Ora, invece, la falce si abbatte a caso, senza calcolo alcuno di particolari, ma con eguale, crudele spietatezza. Fuggivano dalla Libia su strane e deformi imbarcazioni, consunte e fragili, gommoni destinati a cedere alla minima turbativa dell’acqua o del tempo, 21 aprile dell’anno 2016, anno di morte come altri luttuosi e precedenti anni.
Con il ventre gonfio d’acqua, rigidi come fantocci o manichini, sporchi ancora della sabbia e del fango del deserto, prede di uomini definiti scafisti, energumeni che approfittano della disperazione altrui per sordidi guadagni ed interessi, uomini che ci procurano comodi alibi. Sono senza speranza, senza futuro, sorpresi dalla lucente e macabra falce, cercando un pò di quiete in mondi a loro sconosciuti, ma senza bombardamenti e macerie, senza miseria ed epidemie né carceri o brutali violenze.
Cosa possiamo dire, noi europei che non abbiamo saputo fare alcunché e non provare, forse, solo un senso di vergogna, disorientamento, impotenza e avvilimento di fronte a tali tragedie del mare. Meglio non emettere parole inutili e che sanno di falso, meglio, forse, il silenzio che avvolge sentimenti ed emozioni, nel relativo, squallido, senso di impotenza. Meglio tacere di fronte alle grosse navi che cercano di afferrare quei corpi che galleggiano inanimati.
Mentre un grande paese, o meglio un raggruppamento di paesi, l’Ue, ha gettato in campi di vera detenzione senza speranza, in quelli della Turchia, in lager sorvegliati da soldati senza scrupoli e dalla abituale brutalità, altri, innumerevoli fuggitivi, assetati solo di un frammento di solidarietà e benevolenza. Ancora, purtroppo, dobbiamo dubitare dell’esistenza di Dio, di fronte alle nuove barriere e alle mura innalzate a difesa e tutela dell’egoismo e del vuoto benessere. Ancora.