di Angelo Mastrandrea
Il letto di Giovanna Curcio è ancora disfatto, come l’aveva lasciato la mattina del 5 luglio 2006. Nessuno l’ha rammendato, come se lei fosse appena andata via e dovesse rientrare da un momento all’altro. Solo, nessuno vive più in quella casa. I genitori e le due sorelle si sono trasferiti dal centro storico di Casalbuono, un paesino del salernitano oltre il quale si scavalla in Basilicata, in una contrada di montagna. “Facciamo fatica a parlare di quello che è accaduto, dopo la tragedia non ce l’abbiamo fatta a rimanere in paese”, spiega il padre Pasquale.
Nonostante non avesse ancora compiuto sedici anni, Giovanna Curcio era impiegata in un materassificio clandestino allestito in un garage seminterrato di un palazzo nella vicina Montesano sulla Marcellana. Le colleghe di lavoro hanno raccontato al processo che non aveva una mansione precisa, ma era chiamata dal proprietario Biagio Maceri quando ce n’era bisogno. Mediamente, in un mese le capitava di lavorare tra i dieci e i quindici giorni, per nove ore al giorno e un euro e cinquanta all’ora, cinquanta centesimi in meno rispetto alle altre lavoratrici a causa della minore esperienza.
Il 5 luglio del 2006 Giovanna Curcio era arrivata puntuale al lavoro alle 8 di mattina. Quando scoppiò l’incendio era alla macchina da cucire insieme ad Annamaria Mercadante, alla quale era molto legata nonostante la differenza d’età: adolescente l’una, 49 anni l’altra. A cucire cuscini e materassi c’erano pure altre due operaie: Anna Maria Panico e Loredana Monaco.
Quest’ultima aveva appena scaricato e accatastato le une sulle altre le lastre di poliuretano espanso, avvolte nella plastica, che il titolare Biagio Maceri aveva portato con un furgoncino. Fu lei ad accorgersi delle prime fiamme, scatenate forse dal corto circuito di una ciabatta elettrica che sarà trovata carbonizzata. Neppure il processo sarà in grado di stabilire con precisione cosa abbia scatenato il rogo, ma le perizie accerteranno che nello scantinato di Montesano sarebbe bastato “un fiammifero per far saltare tutto”.
Malgrado la scritta “ignifugo” sopravvissuta su uno dei reperti prelevati, nella fabbrichetta clandestina era accatastato alla rinfusa materiale altamente infiammabile, senza che fosse rispettata alcuna regola di sicurezza. Un’ex operaia ha raccontato ai magistrati che lì dentro “non ci si poteva muovere con agilità”. Un’altra che “a volte i materassi arrivavano al soffitto ed erano custoditi ovunque vi fosse posto”, tanto che “a volte per muoversi era necessario spostarli”.
Omertà diffusa
Le fiamme divamparono, improvvise, verso le 10,30 del mattino: Anna Maria Panico e Loredana Monaco riuscirono a scappare, così pure Biagio Maceri che si trovava in compagnia di un amico. Giovanna Curcio rimase invece dentro, intrappolata dai materassi accatastati o forse tornata indietro per aiutare Annamaria Mercadante, come sostiene suo padre. Loredana Monaco ha raccontato ai giudici di aver sentito quest’ultima dire “andiamo a prendere l’acqua”. Vollero provare a spegnere il fuoco o la loro fu una mossa disperata per provare a salvarsi?
Le loro ex colleghe ricordano ancora le urla strazianti provenienti dall’interno, senza che nessuno potesse intervenire. Il perito nominato dal tribunale, la professoressa Paola Cassandro dell’università di Napoli, stabilirà che la morte è avvenuta in non più di 5-6 minuti, per effetto del monossido di carbonio combinato con il benzene e soprattutto con l’acido cianidrico sprigionatosi dalla combustione del poliuretano, un gas “utilizzato, per la sua rapidità ed efficacia, nelle camere a gas” naziste.
Le fiamme furono domate solo alle cinque del pomeriggio. I vigili del fuoco riuscirono soltanto a evitare che esplodessero, con conseguenze devastanti, le dieci bombole di gas (sei da 15 chilogrammi, piene, e altre quattro da 10 chilogrammi, vuote), messe in fila davanti alla porta d’ingresso, accanto a fusti vuoti di colla e diluenti. Quando riuscirono a entrare nel garage completamente distrutto, alle 16,50, trovarono Giovanna e Annamaria esanimi nel piccolo bagno con una finestrella in alto di 30 centimetri per 30, ustionate ma solo dopo il decesso, come accerterà l’autopsia.
A Prato Comune, frazione di Montesano a metà strada tra il centro storico sulla montagna e la parte nuova nella vallata, non si parla volentieri della vicenda, nonostante molti siano stati danneggiati dal rogo: i condomini dell’edificio che hanno dovuto risistemare a spese loro le abitazioni colpite, perché il proprietario della fabbrichetta, Biagio Maceri, arrestato a dicembre 2014 dopo nove mesi di latitanza trascorsi nel suo paese, Tortora sul Tirreno cosentino, per il fisco è un nullatenente e non ha risarcito nessuno; gli abitanti della zona che per un anno non hanno potuto mangiare la frutta e la verdura degli orti perché contaminate dalla “diffusione di pericolose polveri sottili”, come si legge nella sentenza di primo grado. Qualcuno perfino giustifica Maceri, “rovinato” dal rogo, con una motivazione che può comprendere solo chi vive in un paese dove la maggioranza dei giovani emigra o rimane disoccupata: “Almeno con lui si lavorava”.
I familiari delle vittime lamentano un’omertà diffusa, la stessa che ha fatto sì che nel seminterrato di un palazzo di cinque piani, abitato e con una scuola elementare al pianterreno, nessuno si sia accorto di quanto accadeva lì sotto.
Il materassificio era abusivo al cento per cento: nessun segnale o insegna a indicarlo, niente cartelloni pubblicitari e neppure il nome sul citofono. Al comune non risultava nessuna dichiarazione d’inizio attività nonostante lì dentro si lavorasse da almeno sei anni. L’impianto elettrico era stato ereditato da chi c’era prima di loro e perfino la bolletta dell’acqua era intestata al vecchio proprietario. Le operaie hanno raccontato che i contratti erano stipulati “verbalmente” e che le prestazioni erano retribuite rigorosamente “in contanti”, senza busta paga o ricevuta, e all’Ispettorato del lavoro l’azienda era “totalmente sconosciuta”. Un’ex dipendente ha anche raccontato di non essere mai stata pagata, mentre ad altre era stato sequestrato il libretto di lavoro. I magistrati hanno appurato che esisteva una società di “produzione di materassi e cuscini in spugna e lattice”, la Bimaltex srl. Ma per i magistrati si trattava di un nome di comodo, poiché l’attività faceva capo alla “ditta individuale” di Maceri.
Di fronte a quello che accadeva in quel garage-fabbrica in molti hanno chiuso gli occhi, a Montesano. Il comune, che pagava l’affitto per la scuola elementare sopra la fabbrica abusiva, un anno prima aveva inviato i vigili urbani a verificare il mancato pagamento della tassa sui rifiuti. Maceri fu definito un “evasore totale” dal punto di vista fiscale, ma non furono segnalate le condizioni di lavoro e la mancata sicurezza. Il tribunale stabilirà che non era di loro competenza.
Due euro l’ora
Nel film di Andrea D’Ambrosio Due euro l’ora, presentato in anteprima al Bari international film festival (sarà nei cinema dal 12 maggio), la scena più esplicativa è quella dei carabinieri che irrompono nel seminterrato per una perquisizione, fanno la voce grossa e finiscono per accettare un caffè dal proprietario. Il regista (che nel 2008 vinse un Nastro d’argento con il documentario sulla Terra dei fuochi Biutiful cauntri) ha voluto mettere in luce la normalità della schiavitù operaia in un pezzo di Mezzogiorno.
Davanti ai magistrati, Maceri si è giustificato in questo modo: “Mi sono dovuto adeguare a un ambiente in cui il lavoro nero era molto diffuso”. Quando chiedo a Pasquale Curcio com’era finita sua figlia a lavorare in quel garage, mi risponde che il lavoro gliel’aveva trovato non un caporale, bensì l’allora sindaco di Casalbuono Santino Barone, ora deceduto.
Nella realtà romanzata di D’Ambrosio la ragazzina va a lavorare di nascosto, marinando la scuola, per raggranellare i soldi necessari a pagarsi il biglietto del bus per la Svizzera e raggiungere il fidanzato. A un certo punto il padre va a tirarla fuori dalla fabbrichetta clandestina, affrontando a muso duro il padroncino, interpretato da Peppe Servillo.
Al processo per il rogo della Bimaltex di Montesano, Pasquale Curcio ha raccontato che era entrato nel materassificio dieci giorni prima dell’incendio. Sua figlia era nascosta dietro una pila di materassi poggiati uno sull’altro, tanto che le colleghe per farla uscire avevano dovuto chiamarla. Lo scantinato era così pieno che rimaneva solo un piccolo corridoio per andare fino al bagno. Preoccupato, Pasquale aveva detto alla figlia che non voleva che tornasse al lavoro, perché in quel garage “non si capiva niente” e “ci stava un casino”. L’aveva ammonita: “Qua se succede qualcosa fate la morte dei topi”. Giovanna gli aveva risposto che di lì a pochi giorni si sarebbero trasferite in un altro locale, migliore, e che lei voleva tornare a lavorare lì per la grande amicizia che la legava ad Annamaria Mercadante. “Non volevo che ci andasse, per una paga così misera. Mi rispondeva che voleva aiutare la famiglia, visto che io sono operaio forestale e sua madre era disoccupata”, dice oggi il padre, che dieci anni dopo ancora non si dà pace: “A Montesano tutti sapevano come si lavorava lì dentro, perché nessuno ha mai parlato?”.
La rimozione
Di fronte a una tragedia che indignò pure il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che pretese “chiarezza” a più riprese sull’accaduto, sarebbe stato doveroso ricordare le vittime come si deve. Ma non si segnalano azioni degne di nota da parte delle istituzioni. A Montesano preferiscono ricordare don Felipe Gagliardi “il pezzenticchio”, un emigrante che aveva fatto fortuna in Venezuela e al ritorno si era messo a finanziare opere pubbliche, asili e acquedotti, con i sindaci della zona che preferivano rivolgersi a lui piuttosto che allo stato che rappresentavano. Incline alla megalomania, don Felipe ha lasciato ai concittadini una mastodontica cattedrale in stile gotico dominata dalla statua di sua mamma, che andò a sostituire la Madonna precedente con tanto di benedizione dell’arcivescovo Alfonso Castaldo, arrivato appositamente da Napoli per dire nell’omelia che “nessuno dimenticherà Mariannina di Giuda grazie a quest’opera del figlio”.
Dopo tre mesi di telefonate e email con il sindaco Antonio Manilia, che aveva assicurato un contributo economico e ospitalità per la troupe, di fronte ai continui rinvii Andrea D’Ambrosio ha cambiato location, trasferendosi a Montemarano, nell’avellinese. Ma pure se con qualche concessione alla fiction cinematografica (in Due euro l’ora per esempio non c’è la scuola ma una palestra, una delle due donne si salva, nella fabbrica si preparano tessuti e tute sportive, non materassi), la storia non è cambiata: descrive l’ordinarietà che rende invisibile il male in un paesino del sud Italia, dove si può morire, tecnicamente, come ad Auschwitz o in una camera a gas di un braccio della morte americano, senza che nessuno faccia alcunché per impedirlo. D’Ambrosio spiega la scelta di non usare la forma del documentario citando Le mani sulla città di Francesco Rosi: ” i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”.
Condanna senza risarcimenti
Durante il processo, Biagio Maceri ha provato a scaricare le colpe su Giovanna Curcio, sostenendo che fumasse di nascosto sul lavoro e che una sua cicca di sigaretta avrebbe scatenato l’incendio. Ma la sua versione non è stata considerata credibile. Alla fine è stato condannato in via definitiva a otto anni di carcere, che sta scontando dopo nove mesi di latitanza. Si nascondeva nel suo paese, Tortora, in provincia di Cosenza, dormendo in posti sempre diversi e spostandosi a piedi per non farsi intercettare.
I familiari delle vittime denunciano la mancanza di aiuto da parte delle istituzioni. “Il comune ci aveva fatto pagare perfino 970 euro per il trasporto della salma al cimitero, per fortuna poi risarciti dopo le nostre proteste”, spiega Pasquale Curcio. Per sua sfortuna, la tragedia è avvenuta un venerdì d’estate, non la migliore stagione per morire di lavoro. La domenica sera si giocava la finale dei Mondiali di calcio e a Montesano, come nel resto d’Italia, si festeggiò ai calci di rigore la vittoria degli Azzurri contro la Francia.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 9 aprile 2016