di Maria Luisa Pesante
Il governo si appresta nuovamente ad aggredire le pensioni pubbliche. Per bocca del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Nannicini e del viceministro all’economia Morando ha confermato lunedì scorso l’impegno a tagliare di 6 punti i contributi previdenziali, 3 per i datori di lavoro e 3 per i lavoratori neoassunti.
Si tratterebbe di una misura strutturale in sostituzione della decontribuzione sui nuovi assunti deliberata lo scorso anno. La metà della somma resa così disponibile spetterebbe al lavoratore, che potrebbe o incassarla in busta paga o destinarla alla previdenza integrativa. Poiché il governo non compenserebbe il mancato versamento di contributi all’Inps, ne derivano due ordini di conseguenze, per l’Inps e per i lavoratori. All’istituto viene a mancare immediatamente una parte dell’incasso con cui, nel nostro sistema a ripartizione, eroga le pensioni attuali, dunque avrebbe un peggioramento nel bilancio.
Nannicini ha scritto (l’Unità, 18/8/2015), che questo «avrebbe sì costi (di cassa) nel breve periodo, ma ridurrebbe il debito previdenziale implicito nel lungo periodo». La frase è ingannevole, a dir poco. Con l’attuale sistema contributivo l’Inps paga a ogni lavoratore tanto quanto ha ricevuto in contributi, quindi le minori entrate inciderebbero sull’equilibrio di bilancio per tutto il periodo di transizione dal vecchio al nuovo livello di contributi: davvero breve? Nel lungo periodo, cioè a regime, il debito previdenziale diminuisce solo se per esso si intende non il passivo di bilancio, lo squilibrio tra entrate e uscite del sistema, ma l’ammontare delle pensioni che lo stato è impegnato a pagare.
Gli economisti neoliberali che hanno come obiettivo la riduzione del sistema previdenziale pubblico indipendentemente dal suo equilibrio di bilancio usano perciò questa definizione, come hanno fatto fin dagli anni Novanta Onorato Castellino ed Elsa Fornero.
Per i lavoratori i 3 punti di decontribuzione regalati ai datori di lavoro sono ovviamente una perdita secca; ma poi la misura a cui si appresta il governo può avere due diverse conseguenze. Se incassano la decontribuzione in busta paga, una tentazione che può essere molto forte con gli attuali livelli retributivi, questo vuol dire che avranno una pensione ancora più bassa del previsto in futuro. Se invece decidono di destinare l’importo a qualche forma di previdenza integrativa, privata, scambieranno una promessa di maggior rendimento per i loro risparmi con un maggior rischio circa ciò che otterranno effettivamente alla fine.
Con l’attuale normativa l’Inps rivaluta l’ammontare dei contributi per la pensione che ogni lavoratore versa annualmente con il tasso di crescita, o decrescita, nominale del Pil, mentre la rivalutazione del Tfr avviene applicando un tasso fisso dell’1,5% più il 75% della variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. Sia l’accumulo di credito pensionistico da incassare come vitalizio al momento del pensionamento sia il patrimonio che si accumula con il Tfr hanno quindi rendimenti che possono essere più o meno attraenti a seconda di come vanno la produzione e i prezzi del paese, ma sono relativamente stabili, e garantiti, salvo truffe da parte dello stato.
Nei fondi pensione, o nelle forme di previdenza individuale, con i versamenti si accumula credito a un rendimento o a un capitale futuro in base ai tassi di interesse che l’investimento effettuato otterrà. Gli investimenti sono ovviamente in prodotti finanziari, azioni, obbligazioni e titoli di Stato. Ovviamente il principale problema è mantenere un equilibrio tra investimenti rischiosi e potenzialmente più redditizi e investimenti sicuri, ma poco redditizi.
Entrambi dipendono dall’andamento di mercati finanziari, estremamente volatili nel breve periodo, in relazione al medio periodo di una vita lavorativa. Quale è il rischio su questo periodo di più o meno quarant’anni? Secondo la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (Covip, 11 giugno 2015), relazione per il 2014, il patrimonio di tutte le forme pensionistiche complementari aveva raggiunto alla fine dell’anno 131 miliardi di euro; i soli fondi pensione hanno investito 99 miliardi di euro. Questo patrimonio è costituito per il 49,6% da titoli di stato; il resto è diviso tra altri titoli di debito (12,4), azioni (17%) e quote di organismi collettivi del risparmio (Oicr, 13%), mentre gli investimenti immobiliari ammontano a poco più che 4 miliardi di euro.
I titoli di Stato, se sono sicuri, rendono poco o nulla; l’altra metà del patrimonio vale quanto varranno sul mercato i prodotti finanziari di cui è costituita, ossia potrà valere tanto, o poco, o nulla, a seconda della situazione del mercato nel momento in cui si vorrà o si potrà incassare il capitale o cominciare a godere del vitalizio. Nel 2013 sui 6,5 milioni di aderenti a forme di previdenza complementare 1,4 aveva smesso di versare i contributi, evidentemente per difficoltà economiche, non saprei dire con quale perdita di ciò che era già stato versato. Nel 2014 poco più di 1,5 ha interrotto i versamenti.
Solo una quota insignificante di questi investimenti va a finanziare le attività economiche reali in Italia, 2,6 miliardi, il 3% del totale, mentre 28 miliardi sono titoli del nostro debito pubblico, poco più di metà dei titoli di Stato complessivi. In breve: i soldi della nostra previdenza complementare vanno per circa il 65% a finanziare stati ed economie straniere, con quanto vantaggio per la società italiana si può immaginare. Si può dire, con ancor maggior certezza, che il taglio del cuneo contributivo annunciato dal governo offre di nuovo sgravi alle imprese e appende i lavoratori a un’alternativa del diavolo.
Questo articolo è stato pubblicato su Sbilanciamoci.info il 3 marzo 2016