di Clelia Mori
Credo che l’idea di femminile della nostra epoca stia cambiando nel profondo e che la stiano facendo cambiare due gruppi di donne. Uno è quello che ha creato il bisogno assoluto di maternità quando le sue donne hanno scoperto che il proprio corpo non sa produrre vita e che la scienza, a cui piace l’onnipotenza, le può aiutare. L’altro è quello che si è messo a disposizione dei loro desideri con pezzi di corpo.
Dall’incontro tra le donne del primo gruppo e la scienza è nato l’inizio del cambiamento che opera nell’intimo della biologia del corpo femminile: l’utero, il luogo che serve a produrre la vita e dove con l’inizio della gravidanza comincia anche la trasformazione di corpo, cervello e cuore di una donna in madre col suo fare posto vuoto dentro per il nuovo corpo che costruisce con sé stessa. Peccato che il resto del mondo, non sapendo far nascere, non abbia sviluppato bene l’idea di far posto ai nuovi nati/e di donna se non venti o trent’anni dopo la loro nascita e poi e poi…
Comunque la scienza ha promesso la realizzazione di maternità impossibili, ma spesso “non riesce a mantenere quello che ha promesso” e finisce per ingigantire a dismisura, tra dolori fisici e psichici, il desiderio di maternità: fino a farlo corrispondere obbligatoriamente al proprio destino biologico di femmina.
Da donne sappiamo che la garanzia produttiva del nostro corpo non è sempre automatica. Il corpo delle donne a volte non sa produrre vita e i motivi sono vari e non corrispondono sempre a una malattia: è il rischio che corriamo tutte e che conosciamo da sempre e su cui si sono costruite letterature, pratiche, simbolico e potere patriarcale e vale con peso diverso anche per gli uomini. Ma solo a quel corpo si corrisponde, come a quella voce, a quel modo di usarla, a quel modo di fare, a quei gesti in mezzo al mondo e curare un corpo non prolifico non è da confondere con il suo desiderio di onnipotenza.
Per mantenere le promesse la scienza ha smembrato, come fa con le malattie o con le macchine, le capacità del corpo femminile: ovulo, utero e gravidanza e le ha divise tra altri due o tre corpi di donna, dividendo insieme maternità e genitorialità femminile. Ne è nata una richiesta d’acquisto di materiale umano femminile molto più invadente di quello richiesto al maschile come padre e l’ invenzione di un nuovo mercato, con offerta di ovuli, spermatozoi facili, uteri e gravidanze in affitto, secondo il corpo richiedente e il suo portafoglio. Sono nate agenzie intermediarie tra richiesta e offerta, cliniche, pratiche e lavori prima sconosciuti.
Di recente c’è stata l’offerta di ghiacciare gratis gli ovuli delle proprie lavoratrici per sfruttarle meglio senza modificare nulla della propria organizzazione, ma scaricando il suo peso sull’orologio biologico delle donne come fosse uguale fare figli a 30 o a 50 o più anni, tanto c’è l’utero in affitto e poi tanti sono rimasti orfani da giovani, no?. E’ difficile per tutte coniugare lavoro e maternità, ma lo si è sempre pensato per chi non ha e rischia il posto di lavoro se pensa a procreare. Invece pare si possa slegare il legame lavoro/maternità per le donne se si hanno soldi e si “aiutano” tante donne sparse nel mondo che così “aiutano” i propri figli/e o le famiglie.
Ma così non si vede che si rinuncia implicitamente a un progetto sociale e politico delle donne per un mondo più abitabile, fondato sul riconoscere la competenza e il valore femminile del generare da sé e indisponibile al volere di chiunque. Una libertà a cui da donne sarebbe bene pensassimo “con cura” per non diventare merce… È molto fragile il limite.
La domanda del primo gruppo di donne, ampliata da nuovi desideri, ha creato un secondo gruppo, meno ricco e rispettato del primo, che ha costruito il mercato mondiale di pezzi genitali femminili. Cambiando il valore corrente del femminile: mettendolo più di prima a disposizione del mondo, ma descrivendolo come un atto di libertà per tutti gli interpreti. Una libertà di relazione tra viventi che se fosse vera non dovrebbe essere sottolineata e non si sognerebbe di mettere sotto scacco la libertà della relazione madre figlio/a, la prima vitale relazione per chi nasce: maschio o femmina che sia.
Un mercato che, soprattutto in Occidente, sente il bisogno di narrare questa libertà velando l’acquisto e la vendita di ovuli e uteri come dono. Se serve si unisce in un’unica figura “dono e aiuto” mettendo sullo stesso piano persone non nate e persone già nate, cose e persone, presenza e assenza, desiderio e volere, povertà e ricchezza, amore e abuso. Un ricatto affettivo, quando si sente il bisogno di nominarlo come aiuto o dono, che legittima ancora di più la condanna alla sofferenza, alla disponibilità (amore?) sacrificale senza fine (schiavitù per Muraro) previsto per le donne dal patriarcato e adottato dalle donne stesse. A mò di giustificazione si paragona questo dono a quello di un rene per chi rischia la morte, solo che con l’utero in affitto non c’è nessuno che rischia la morte se non magari chi concede l’utero e la vita che dentro vi si compie.
E poi si dona o si aiuta col proprio corpo, ma aiutare o donare per la vita il corpo di un altro/a che ancora non c’è anche se lo fai tu sa di libertà a senso unico. E con la maternità dalla gravidanza spezzettabile e ricomponibile si cambia la sua faccia per come l’abbiamo conosciuta e nominata e si fa strada il privilegio dell’ovulo e dello spermatozoo sulla relazione madre-figlio/a in gravidanza e si valorizza di più, non a caso, il dato biologico del concepimento e dell’inizio della vita: un concetto proprietario su cui si fonda il diritto all’acquisto di corpi da far partorire.
Come se significativo fosse solo, in questo straordinario meccanismo della vita, il suo concepimento e non anche la lunga conclusione dei nove mesi di gestazione che solo un corpo di donna garantisce alla vita di nascere: carne, sangue, forma, suono, calore, odore, emozioni, battito dei due cuori insieme… Il mistero femminile della vita negato e il bisogno di impadronirsene confondendo l’identità materna. E quando questa nuova vita, desiderata in modi nuovi e illimitati, dotata finalmente di un corpo nasce: rimane subito sola al mondo.
Non può più riconoscere lo stesso calore, lo stesso suono di voce, lo stesso battito del cuore, lo stesso ritmo del respiro, lo stesso odore che ha imparato a riconoscere nel ventre della madre e forse non potrà neppure prendere il suo latte ma quello industriale sì e dovrà imparare in fretta altro. Fortuna che nella pancia ha avuto modo di svilupparsi bene perché ha proprio bisogno di tutta la sua intelligenza per sopravvivere nel quadro che gli è stato preparato da questa nuova genitorialità che si vuole più certa e sicura delle altre, come se queste coppie non potessero mai avere i problemi delle altre. Men che meno i loro figli.
In questo schema salta totalmente per le donne la relazione sessuale tra piacere e maternità e si delega l’azione generatrice ad una provetta inseminatrice e alle mani di un biologo/a. Il piacere, la fatica della ricerca di una buona relazione sessuale tra donna e uomo e il controllo delle sue conseguenze ha trovato la sua evoluzione neutra oltre la pillola. Come accade da tempo a tante altre femmine di animali che alleviamo per nutrirci.
Questa pratica dell’utero in affitto legalmente praticabile in alcune nazioni per le coppie eterosessuali è diventata una pratica anche delle coppie in cui non ci sono donne che, facendo leva sull’essere coppia per ignorare che due uomini non possono generare, hanno pensato, sfruttando le disposizioni legali dell’utero in affitto, di poter acquistare uteri di donne “portatrici” per realizzare un sogno impossibile di genitorialità: senza madre-donna nella coppia. Confondendo l’ampia gamma del maschile con tutte le gamme del femminile compresa quella che gli uomini non potranno mai avere: generare la vita quando la possono solo concepire.
Un nuovo cammino d’uso del corpo delle donne aperto dal desiderio femminile illimitato e forse “malato” di genitorialità diventato comune a donne e uomini con abbastanza soldi. Fino a consentire, per merito di una stravagante legislazione, al compagno di un noto artista di “certificarsi” come madre dei “loro” bimbi negando la loro realtà di nato/a da donna. Patriarcato della peggior qualità e invidia del potere creativo femminile. Col linguaggio “imparato dalla madre” la si cancella culturalmente anche se nella realtà è impossibile.
Una bizzarria questa dell’utero in affitto che cambia il femminile, la sua libertà e il suo simbolico e lo sposta in luoghi dove non potrà mai stare, almeno per gli uomini, e che interroga molto le donne, la loro identità, il luogo d’origine dei loro desideri e l’obbligo alla maternità. E non sono i numeri che contano, conta lo spostamento del pensiero se è vero che “nasciamo solo da donne”, ma investe anche gli uomini e non solo le copie gay se mi chiedo quanti figli e figlie ci sono in giro con lo stesso padre? E se lo volessero conoscere?
A questo punto il padre è più certo della madre. A meno che l’utero in affitto non diventi un tabù…