di Annamaria Simonazzi e Gina Pavone
“Troppi vivono ai margini della speranza”, dichiarava il presidente degli Stati uniti Lyndon Johnson nel 1964. In un discorso al congresso in cui annunciava la sua “guerra incondizionata alla povertà”, definiva “speranze essenziali” avere un lavoro a tempo pieno, con una retribuzione da tempo pieno, qualche sicurezza in caso di malattia, disoccupazione, anzianità. Cinquanta anni dopo la povertà ha cambiato profilo in modo consistente. La classe media non ha più l’aspetto florido di una volta e un esercito di persone, per lo più donne, è concretamente a rischio di finire in ristrettezze economiche.
Allora, nei primi anni Sessanta, i volti della povertà erano quelli di bambini scapigliati e vestiti di stracci o poco più, in sperduti villaggi sui monti Appalachi – come nel servizio che la rivista Life dedicava alla “war on poverty” – o assembrati a frotte nei vicoli dei bassifondi cittadini. Oggi, l’icona dell’insicurezza economica è una madre lavoratrice in affanno di prima mattina, di corsa mentre tenta di sistemare contemporaneamente il figlio e un genitore anziano, schiacciata tra lavoro a basso reddito e i diversi compiti di cura: “La linea che separa la classe media e i working poor dalla povertà assoluta si è fatta più sfumata”, scrive Maria Shriver in un report sulla povertà femminile realizzato insieme al Center for American Progress. Sono le donne, in particolare le madri single e con bassi livelli di istruzione, che ingrossano oggi le fila della vulnerabilità economica.
Ai tempi di Johnson, con la “guerra alla povertà” l’attenzione era puntata su 38 milioni di americani, un quinto della popolazione. Oggi il numero delle persone in condizioni di povertà o a rischio di povertà si è gonfiato fino a superare i 100 milioni, di cui 42 milioni di donne e 28 milioni di bambini che da esse dipendono, si nota nel report. Persone che vivono sulla soglia di povertà, a un passo dal baratro, e quel passo potrebbe essere un qualsiasi imprevisto (spese mediche, un pagamento ricevuto in ritardo o la macchina da portare dal meccanico, per esempio).
Eppure stiamo parlando di un paese, gli Stati uniti, in cui la maggior parte dei neolaureati è donna, e in due terzi delle famiglie entrano due stipendi. Allo stesso tempo, però, negli Usa sono di genere femminile i due terzi dei lavoratori che lavorano per il minimo salariale. Come mai allora questa polarizzazione nella condizione femminile? Come mai tante donne rivelano una così elevata vulnerabilità economica?
Il report individua 3 grandi cambiamenti culturali e sociali.
- 1. Innanzi tutto la convivenza di due tendenze: se da un lato è vero che molte più donne raggiungono alti livelli di istruzione rispetto al passato, è comunque sempre facile rimanere segregate in quei lavori da “colletti rosa” a basso reddito nei settori dei servizi o della cura, tipicamente femminili.
- 2. Quella che negli anni Sessanta era la famiglia-tipo – padre breadwinner, madre casalinga – oggi ammonta solo a un quinto del totale delle famiglie. Più della metà dei bambini avuti da donne di trent’anni o più giovani, è nato fuori dal matrimonio. E nel 40% dei nuclei familiari in cui vivono dei minorenni, la donna è l’unica o la principale fonte di reddito. Il sistema di welfare non è stato ancora adattato a questa trasformazione e la maggior parte delle persone intervistate per il report si sono dichiarate a favore di interventi pensati indipendentemente dalla condizione familiare, in modo da arrivare ad aiutare i genitori single e i loro figli.
- 3. Una laurea è ancora un biglietto per entrare a far parte della classe media, ma accedere a alti livelli di istruzione è sempre più costoso, sottolinea ancora il report.
Un circolo vizioso ben descritto da Barbara Ehrenreich quando su The Atlantic scrive che in realtà essere poveri costa caro. Chi ha bisogno di soldi, finirà per ricorrere a prestiti concessi a tassi più alti di quelli applicati a clienti più facoltosi. Chi non può permettersi una cucina ed elettrodomestici con cui preparare i propri pasti, finirà per arrangiarsi con cibi pronti, dannosi per la salute e costosi.
I lavori a basso reddito sono solo un’altra gabbia: si guadagna così poco da non riuscire mai a ritagliarsi il tempo necessario per cercare un lavoro pagato meglio; gli orari e la mancanza di flessibilità non permettono di organizzarsi con i bambini a casa, tanto meno di incastrare un secondo lavoro. Molti di questi lavori a salario minimo non prevedono giorni di malattia pagati, né permessi in caso di malattia del figlio o della figlia, sottolinea ancora il report, senza contare che risultano fisicamente usuranti, e particolarmente stressanti (il 42% delle donne con basso reddito accusa alti livelli di stress, contro il 22% degli uomini), senza però garantire l’accesso all’assistenza sanitaria. Così chi un lavoro ce l’ha, fa fatica a mantenerlo, e anche se guadagna poco, non ce la fa a ottenere una qualche prestazione pubblica a sostegno del reddito, spesso non rientra nemmeno nel programma sanitario minimo Medicaid.
Innalzare il minimo salariale è la prima cosa che secondo il report si può fare sul fronte delle politiche pubbliche, ma anche migliorare le possibilità di accesso alle forme di sostegno al reddito, e le forme di sostegno per il lavoro di cura: quasi tutte le madri single intervistate (il 96%) indicano i permessi pagati come la risorsa che più le aiuterebbe, mentre più in generale un 80% degli statunitensi auspica provvedimenti governativi per ampliare la disponibilità di servizi di qualità per l’infanzia, e economicamente accessibili.
Le donne, dal canto loro, devono imparare a fare delle scelte utili per mettersi al riparo dal rischio povertà, e la prima è “College before kids” (prima l’università poi i bambini). Puntare cioè su un buon livello di istruzione, perché le donne che hanno bassi livelli di istruzione hanno da tre a quattro volte maggiori possibilità di finire sull’orlo della povertà.
Infine le imprese sono chiamate a fare la loro parte con politiche di valorizzazione delle loro lavoratrici, occupandosi della loro crescita, e su questo punto, il report propone un “indice di prosperità“, elaborato insieme ai ricercatori di un’università californiana.
La situazione dei working poors mette bene in evidenza come in realtà il problema più grosso non è tanto il soffitto di cristallo, che le poche arrivate (quasi) in alto non riescono a sfondare, ma il pavimento che sprofonda, nota un commento sul New York Times in cui si sostiene che elaborare politiche per migliorare le condizioni di lavoro delle donne voglia dire produrre effetti positivi su tutti i lavoratori, e anzi, paradossalmente, sarebbe parecchio utile anche per gli uomini, sempre più coinvolti in condizioni (tipicamente femminili) di basso reddito e instabilità lavorativa.
Questo articolo è stato pubblicato da InGenere.it