di Giorgia Fattinnanzi
Di cosa hanno bisogno i lavoratori metalmeccanici? Come vivono la loro condizione lavorativa? Cosa vorrebbero cambiare o migliorare nella loro azienda? Sono felici sul posto di lavoro, hanno abbastanza amici? Sono queste le domande che gli imprenditori di Federmeccanica si pongono, aggiungendo all’analisi sull’andamento delle aziende metalmeccaniche, uno studio commissionato a Community Media Research sulle condizioni di lavoro dei loro dipendenti.
È inutile aprire una discussione su come siano stati scelti i 1100 lavoratori (compresi i dirigenti) a cui queste domande sono rivolte, anche se la curiosità è tanta. Intanto si può dire che solo il 42,8% del panel riguarda i lavoratori dell’industria (il resto sono impiegati nei servizi) e, di questi, solo il 31,4% sono metalmeccanici.
Da un lato, l’ironia nasce spontanea di fronte a chi già teorizza – come analisi dello studio – la fine della lotta di classe, che cede il passo all’identificazione personale del lavoratore nella propria impresa. Come se, chi pratica il conflitto, non sentisse altrettanto “sua” l’impresa in cui passa per anni la maggior parte della sua giornata e se il suo destino non fosse anche una sua priorità.
Totalmente immemori delle battaglie dei lavoratori quando la maggioranza delle nostre imprese ha scelto di spostare gli utili d’impresa non nell’innovazione dei processi e dei prodotti, ma in operazioni finanziarie. Talmente ciò è stato vero, che l’allora presidente di Federmeccanica, Andrea Pininfarina, all’assemblea annuale della sua organizzazione fu costretto a lanciare un appello affinché gli imprenditori tornassero a fare il loro mestiere.
Dall’altro lato, sembra assai poco “nuova” l’idea che le imprese provino a sostituirsi al sindacato nel rapporto con i “loro” dipendenti, in competizione costante con i dipendenti dell’impresa vicina o dell’altra sede “più produttiva”. Ricorda immediatamente quando la Fiat, nel 2008, in piena trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, decise unilateralmente di erogare un aumento da lei stabilito ai “suoi” dipendenti.
L’idea, neanche nascosta, è quella del sindacato aziendale in pieno stile americano che prova a difendere i lavoratori solo laddove è presente e senza alcuna aspirazione di garantire tutele generali e diritti di cittadinanza; mentre il sindacato – almeno qui da noi – ha sempre contrastato l’idea di mettere i lavoratori in guerra tra loro, di fare della propria impresa un feudo in guerra con gli altri feudi. Lo stesso atteggiamento che porta avanti anche il premier Renzi, quando scavalca i corpi intermedi spiegando alle persone e alle imprese che lui è in grado di rappresentare direttamente gli interessi di tutti (e bisogna dire che con le imprese gli riesce anche molto bene).
Lascia perplessi solo il fatto che Federmeccanica sembri non accorgersi che, in un quadro così disegnato, non ci sia posto neanche per lei. Proprio per questo Fiat per prima, e altre imprese a seguire, da Confindustria sono uscite e a rientrare non ci pensano proprio. Il mondo sarebbe forse peggiore senza i sindacati dei lavoratori e delle imprese. Forse no. Ma rimane il grande problema di come garantire a tutti le tutele e i diritti, come la storia del sindacato nel nostro paese ci ha insegnato.
Soprattutto di fronte a un gran numero di imprese che gioca la competizione sempre sul piano della riduzione dei diritti, delle retribuzioni e della sicurezza. Magari sarebbe utile se Confindustria, oltre a chiedere ai lavoratori se siano felici, dicesse almeno una cosa contro l’evasione fiscale che nuoce in primis alle tante aziende in regola che competono davvero sulla grande qualità dei loro prodotti e la specializzazione dei loro operai. Invece, si limita a correre in aiuto alla ThyssenKrupp dopo la sentenza per omicidio colposo di Torino o a Emilio Riva, che nasconde i suoi soldi all’estero mentre avvelena un’intera città.
Scarica il monitor sul lavoro commissionato da Federmeccanica:
Questo articolo è stato pubblicato sul sito della Fiom Cgil il 26 novembre 2015