di Alessandro Leogrande
Il sommozzatore si cala in fondo al mare, si tira giù con l’aiuto di una corda, sembra una pertica conficcata sul fondale. L’uomo pare danzare, la tuta nera è avvolta da scie di bollicine. A tratti si sente il rumore dell’aria sputata fuori. Al primo sommozzatore se ne aggiunge un altro, poi un altro ancora. Tutti hanno scritto sul braccio destro guardia costiera. Dopo alcuni secondi circondano il relitto.
Adagiato a quaranta metri di profondità, al largo dell’isola di Lampedusa, il peschereccio sembra in secca, incuneato nella sabbia chiarissima del fondale. I tre sub, le bombole sulle spalle, calcano il ponte della piccola imbarcazione ed entrano da una porta laterale. Passa qualche secondo, ed estraggono il corpo di una donna.
Assomiglia a una bambola gonfiabile per la lievità con cui, sul fondo del Mediterraneo, scivola fra le loro mani. La donna è di spalle, il corpo è fasciato da pantaloni scuri e una maglietta. All’estremità spuntano le braccia e i piedi neri. I capelli lunghi e crespi sono raccolti in una coda. La donna viene spostata e adagiata pochi metri più in là, in un angolo del ponte. Poi entrano nella cabina accanto. Sui letti ci sono due corpi. Un altro è ritto, a testa in giù. La maglietta si muove, a tratti scopre la pancia snella, irrigidita.
Nella terza cabina c’è un uomo seduto, la bocca aperta e il corpo immobile, il taglio degli occhi sottile, le mani su un tavolino, come se fosse lì ad aspettare da mesi quell’incontro.
È un lavoro lentissimo. I sommozzatori tirano fuori i corpi di un ragazzo e una ragazza, poi quello di un’altra ragazza, dalle strette cabine in cui, anche se tutto è sottosopra, regna una strana calma. Il silenzio assoluto rallenta ogni gesto.
Ora i corpi sono raccolti sulla sabbia accanto al relitto. Giacciono in fila, mentre gli uomini della Guardia costiera ne aggiungono altri e altri ancora. Sono decine, centinaia. Compongono una fila lunghissima. Ci sono quelli con la faccia riversa, quelli con gli occhi sgranati, quelli con le braccia alzate, quelli con le mani raccolte sotto il capo, come se dormissero.
Quelli che giacciono vicini, quasi abbracciati. Quelli che indossano ancora i giubbotti, i pantaloni, i maglioni. Quelli che hanno provato a liberarsi dei vestiti. Quelli con le scarpe e quelli scalzi. Quelli impassibili e quelli stropicciati da uno strano sorriso.
Sono tutti neri, tutti giovani.
I sommozzatori continuano la loro operazione come se l’acqua non ci fosse. Come se attraversassero un paesaggio lunare. I corpi adagiati sulla superficie piana della sabbia paiono stesi sulla nuda terra. Che siano schiacciati dalla pressione o tenuti sul fondo dall’acqua che ha fatto scoppiare i polmoni, nessuno si alza dal suolo o fluttua. Sono raccolti in gruppi. Attendono pazienti, inerti, mentre i sub continuano a danzare intorno al peschereccio. Uno alla volta, vengono imbracati e portati su.
A bordo del battello della Guardia costiera c’è un viavai di gente. Gambe che si muovono, piedi che scattano, mentre gli uomini avvolti nella tuta si alzano dal mare. Tra le onde, in uno spicchio blu scuro davanti al battello, alcuni corpi galleggiano gonfi, le gambe divaricate, in un mucchio indistinto di colori.
Nel trambusto generale, il corpo di un bambino viene adagiato sulle assi di legno del ponte. Avrà un anno, un anno e mezzo al massimo, la maglietta rossa, i capelli arruffati, le guance paffute. L’acqua defluisce dalle membra. La testa poggia su un lato, sotto il sole. Inerme.
Questo testo, contenuto nel libro di Alessandro Leogrande La Frontiera (Feltrinelli), è stato pubblicato da Sbilanciamoci.info il 24 novembre 2015