di Luca Mozzachiodi
Recensendo il volume Scrittori e Popolo 1965 – Scrittori e Massa 2015 di Asor Rosa, si deve prima di tutto dire cosa i lettori vi troveranno di nuovo e cosa di già noto: il volume ripubblica per intero l’ormai classico “Scrittori e Popolo” nell’edizione einaudiana e in una seconda parte, invero di assai minor ampiezza, il supplemento “Scrittori e Massa”. Già le date apposte sono significative 1965-2015, chiaro che si tratta del bilancio di un cinquantennio e dell’invito a leggere i due saggi l’uno attraverso l’altro, solo riportando a tema di riflessione quanto era già stato scritto e detto in passato e cogliendovi i segni del tempo mutato, non dell’invecchiamento, è possibile una seria operazione di critica della cultura che non sia priva di senso storico.
L’oggetto del libro è oggi di massimo interesse, si tratta del populismo, questo Moloch della politica e della stampa contemporanea che pare macchiare come un peccato originario qualsiasi forma di critica dell’esistente, che gli avversari fanno rimbalzare gli uni sugli altri per screditarsi agli occhi dell’opinione pubblica e, fattore a mio parere non trascurabile anzi in certe forze maggioritario, dare l’impressione, per falsa coscienza, ai propri elettori e militanti di essere intellettualmente e ideologicamente superiori.
L’uso tattico dell’accusa di populismo viene ovviamente anche dalla più radicale ignoranza della natura del fenomeno, che potremmo invece, intelligentemente e sinteticamente come Asor Rosa e altri fanno, riassumere in uno schema interpretativo della storia e della società nel quale il popolo è visto come portatore di valori positivi e di una sorta di moralità privilegiata e statica nel mutare delle strutture sociali, spesso a fronte di un gruppo dirigente, aristocratico, burocratico o politico che sia, visto come corrotto anche a causa della sua distanza dalla moralità e dalla vita popolare.
Lo studioso traccia una sorta di storia del populismo come atteggiamento ideologico proprio della cultura italiana e del rapporto tra scrittori e popolo come oggetto di rappresentazione letteraria. Comincia dei teorici del Risorgimento, Gioberti e Mazzini su tutti, per passare a poeti e narratori dell’Italia umbertina nella quale, a seconda dei casi, si fondono paternalismo altoborghese o cattolico, progressismo piccolo borghese, egualitarismo socialista e fermenti anarchici. Già in quel periodo per l’autore si crea il sostrato ideologico, fondato sulla percezione di una continuità con la tradizione e su una visione progressiva della storia, che in Italia avrebbe reso impossibile un’arte, e una politica, rivoluzionaria.
Successivamente sono presi in considerazione alcuni autori del primo dopoguerra e del periodo fascista che si contraddistinguono per la scelta di un provincialismo anche ideologico come Ricci, Bilenchi o Tozzi e alcuni giovani, magari vicini ai fascisti di sinistra, destinati ad un grande avvenire letterario quali Vittorini, Pratolini e Pavese; di questi, ai quali dedica ampio spazio, Asor Rosa intende mettere in luce sia la sostanziale condivisione di certo populismo del fascismo sansepolcrista, sia come proprio in virtù della loro origine populista e delle loro disposizioni borghesemente umanitarie abbiano potuto transitare naturalmente al populismo postresistenziale e al neorialismo moraleggiante.
A questi due esisti arriva infatti secondo l’autore la letteratura progressista in Italia, passando attraverso la mediazione politica e culturale del PCI che a sua volta rielaborava linee gramsciane; il principio era fondare, con ogni mezzo, una nuova cultura italiana riannodando i fili con il progressismo ottocentesco, produrre opere letterarie che avessero un fine sociale: il miglioramento della vita morale della nazione.
A Cassola e a Pasolini, gli autori con i quali si manifesta la crisi di questa ideologia letteraria sono dedicati due ampi saggi, il primo ha una fase di transizione nel neorealismo ma declina il suo populismo in intimismo richiudendo la ricerca letteraria in un breve spazio geografico e in una vocazione al sentimentalismo e alla psicologia, il secondo tradisce la sua iniziale vena di poeta colto e dialettale per instaurare con il popolo un rapporto mediato dall’impegno nel costruire un’immagine di sé ideologicamente coerente e per rileggere i suoi personali drammi alla luce della storia, salvo poi trovare nella condizione naturale di questo popolo, residuo dell’Italia precapitalistica, i segni di una verità e di una salvezza quasi in senso religioso.
Chiuso questo regesto delle posizioni del Novecento la seconda parte porta con sé tutta una serie di questioni di metodo e problemi sociologici, anzitutto, constata lo studioso, il popolo cioè per lui l’insieme delle persone che si riconosco unite in una nazione e manifestano la volontà di vivere sotto un medesimo ordinamento giuridico e la classe cioè quel corpo sociale che è di sé consapevole nella sua relazione con altre classi all’interno di rapporti economici, sociali, culturali, si sono fatti evanescenti e le persone più spesso si raccolgono in masse, gruppi uniti da vincoli momentanei di tipo sentimentale o di convenienza in ragione di alcuni scopi comuni, fatte di individui svuotati della coscienza delle proprie differenze.
Alla luce di questo una reale presa della letteratura sulle masse pare impossibile, anche per via della, ferocemente denunciata, logica puramente commerciale che determina i rapporti tra editori e scrittori modificando radicalmente la natura del fare letterario per rispondere ad un orizzonte d’attesa. I narratori tra i quaranta e i cinquant’anni, da Asor Rosa trattati in sintesi ma diffusamente richiamati, tendono a dare della società una visione statica e piatta quasi sempre con un lieto fine cogliendo le fratture piuttosto sul piano esistenziale e ripiegandosi in uno spazio narrativo, che è anche uno spazio commerciale e di notorietà, tutto regionale: ecco allora i narratori romani, sardi, torinesi, siciliani, bolognesi eccetera. La narrativa ha perso il suo respiro nazionale e la capacità di teorizzare.
Per quel che riguarda la poesia l’autore mi pare in effetti avere meno lumi, gli esempi sono perlopiù tratti da antologie diffuse dalle maggiori case editrici, ma i criteri di compilazione delle antologie poetiche e le politiche editoriali spesso non sono specchio di qualità o di rappresentatività quanto di forza di una rete di relazioni, per un’analisi della poesia bisognerebbe inoltrarsi meglio nel sottobosco di piccole e medie case editrici. Rimangono comunque valide le osservazioni di Asor Rosa: c’è un aumento assoluto della produzione poetica, in termini relativi pari a quello della narrativa, e la poesia pare rispondere per la sua vocazione alla brevità e ai rapporti individuali più che a quelli collettivi, rispondere alle esigenze dell’uomo massificato, non posso dire della massa dato l’esiguo numero di lettori, ma forse sì, tutte quelle signore e quei signori che dicono di parlare all’anima dovranno rassegnarsi a riconoscere in se stessi i segni di quella terribile massa che amano proiettare al di là del cancello condominiale e della rubrica telefonica.
Il libro complessivamente è davvero buono e importante, segna come ogni maestro dovrebbe saper fare una direzione nuova nell’indagine sulla cultura e dà linee di metodo, le uniche critiche che si potrebbero muovere sono di eccessiva confidenza nei mezzi e nelle forme di quell’alta sfera letteraria cui l’autore appartiene e di non aver potuto, forse per mancanza di tempo, riscrivere anche il primo vecchio saggio; così tanto ci avrebbe giovato una lettura di quel populismo, di quella letteratura, non solo sul punto del suo finire, ma negli anni e nella sua ricezione successiva anche negli autori che in seguito chiama in causa.
D’altra parte l’operaismo che allora informava la sua critica si è, a volte, rivelato non meno manchevole o astratto del populismo contadino al quale voleva contrapporsi e alle tendenze intellettuali che criticava; tutto questo ci porta alle ultime domande che il libro ci lascia, la prima è di ordine socio-politico: ha senso essere populisti oggi? In un tempo di incultura e disamore per la politica, che sta indubbiamente perdendo la sua efficacia tradizionale e mutando le sue forme novecentesche, può essere necessario un momento populista nella costruzione di una nuova coscienza? Non ci si ribella certo per aver letto un articolo su Internazionale o Repubblica.it, ci si oppone perché ci si sente toccati nella carne e nei sogni di futuro.
La seconda domanda che apre invece una riflessione più scorata è anche quella che più da vicino tocca le zone d’ombra di questo libro: sarà possibile per i più giovani autori e per quelli a venire recuperare una dimensione ampia del fare letterario? Si darà voce al conflitto dell’epoca e si recupererà in questi scritti una vocazione nazionale e internazionale che sia anche teoria e critica della cultura come Asor Rosa si augura nelle ultime pagine? Perché resta invero il fatto che se gli autori populisti sbagliarono seppero però farlo sistematicamente e con grande respiro a volte, ecco perché non posso non pensare nonostante tutto che il miglior romanzo di quei narratori cittadini o la dichiarazione parziale di questo o quello scrittore non solleva alcun problema reale, oggi forse si sbaglia di meno, non si sbaglia più infatti con la propria testa, come dicevano i nonni, ma quei grandi errori quali sono stati per esempio l’umanesimo civile di un Vittorini, il populismo di Pasolini che diventa una vera e propria filosofia della storia, sono oggi più vivi, veri e necessari da attraversare di tutte le nostre corrette verità.
[Recensione a Scrittori e Popolo 1965 – Scrittori e Massa 2015, Alberto Asor Rosa, Einaudi, 2015, 430 pp. 23 euro]