Finis Europae? La tragedia dei migranti e le colpe dell'Occidente

3 Settembre 2015 /

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Migranti - La bandiera europea secondo Bansky
Migranti - La bandiera europea secondo Bansky
di Angelo d’Orsi
Un momento di distratto zapping serale, in epoca estiva, mi porta davanti a un programma di Rete 4: un conduttore in studio, con ospiti, un “giornalista” sul campo, circondato da un gruppetto di comparse, il “pubblico”, ossia “la gente della strada”. Si parla ovviamente di migranti, profughi, rifugiati. L’intervistatore sul campo – siamo a Roma, borgata periferica – lascia parlare per almeno dieci minuti consecutivi (un tempo assurdo in tv) un tizio, un giovanottone con braccia finemente intarsiate di disegni di draghi e simili, il quale racconta delle sue difficoltà economiche ed abitative. Forse avrà lo sfratto, e aspetta che “le autorità” gli risolvano il problema.
Ed ecco l’affondo: “Io, nun so’ razzista, ma forse tra poco me danno lo sfratto, e quelli se ne arrivano belli belli e glie danno casa, gli danno er medico, glie danno tutto, tutto glie danno… E a noi italiani chi ce penza?”. La linea torna in studio, dove un imbambolato conduttore viene immediatamente travolto dagli ospiti che si strappano la parola vicendevolmente, si sovrappongono, con urla e strepiti: il rumore di fondo rimanda le stesse cose del borgataro, con una esponente PD che loda intanto l’azione governativa, in tandem con un suo sodale in collegamento.

Il pezzo da novanta non poteva mancare: “sentiamo cosa ne pensa l’onorevole Salvini”. Il summenzionato, che evidentemente trascorre in tenda le sue giornate, passando da una sede di emittente ad un’altra, per non mancare mai un programma, parte subito con la sua giaculatoria: “Questa gente certo se scappano da guerre dobbiamo accoglierla, ma tutti gli altri via, a calci nel sedere”. Non spiega perché quelli che scappano dalle guerre siano degni di accoglienza (né spiega quale tipo di accoglienza), e coloro che fuggono la fame, semplicemente, debbano essere rispediti a patire la fame, e “a calci nel sedere”. Lascio la rete e il programma, e mi trovo un tg nazionale dove spunta in altra location, non meglio identificata, chi? Il Salvini, il quale, arringa mussolinianamente la (piccola) folla: “Cosa bisogna fare con questa gente?” “Rimandiamoli a casa loro!”. Il mantra è sempre quello.
È toccato a Massimo D’Alema, in questi stessi giorni, ricordare che gli immigrati producono reddito, come del resto tutte le statistiche dimostrano, e consentono alle scuole di non chiudere, o di assicurare lavori che gli italiani rifiutano, o di garantire servizi di assistenza e di cura alle persone… E come dimenticare quanto conviene alle aziende agricole o industriali europee la manodopera a basso costo, e spesso senza i “gravami” sindacali, fornita dai migranti? E intanto, però, proprio sui migranti, specie i “clandestini” (una mostruosità giuridica, per cui la colpa non discende da un atto, ma da una condizione), si fanno buoni affari: dagli affitti in nero nelle grandi città, al lavoro nei campi, sotto la ferula dei caporali.
Ma tutto ciò viene oscurato dai media, e dalla politica. Prevale, di gran lunga, il mood negativo, sul migrante. In vari quartieri delle grandi città, in numerosi borghi d’Italia sorgono comitati di onorevoli cittadini che predicano l’accoglienza va bene, ma non qui. E spesso si tratta di migranti, o di figli e nipoti di migranti, dal sud al nord, da est a ovest. Mentre il ceto politico è preoccupato di perdere voti fra questi elettori, salvo proclamare solidarietà, mentre si rivolge all’astratto soggetto “Europa” chiedendo di “affrontare la questione”. E l’Europa, al di là delle sguaiataggini, risponde come Salvini, che, peraltro, è persino deputato (super-assenteista) al Parlamento dell’Unione. Ovvero, sì ai “richiedenti asilo” (ossia, coloro che fuggono dai conflitti, in sintesi; quanto alla natura del sì, rimane assai diversificata da Paese a Paese), no ai “migranti economici”. Ma come si possa distinguere uno dall’altro nessuno ce lo ha spiegato. E in quale Paese, oggi, tra Medio Oriente e Nordafrica, e anche Centroafrica, non v’è una guerra in corso?
In realtà, tutti, tutti coloro che cercano con ogni mezzo di raggiungere il Centro e il Nord dell’Europa, transitando, sia lungo la rotta mediterranea (ossia Italia), sia lungo quella balcanica (Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria…), sono null’altro che “scarti”, nel senso comune; o, per dirla con Bauman (la Repubblica, 29 agosto), “distopie che camminano”, walking dystopias. Sono visti come “messaggeri di cattive notizie” (Brecht), e vengono accusati ancor prima che compiano atti contro la legge, sono “potenziali” criminali, scippatori e stupratori, per dirla sempre con Salvini. E comunque vengono a “rubare” le nostre risorse, di qualsiasi genere. In questa narrazione, insomma, si sta trasformando lo straniero da hospes (ospite) in hostis (nemico): alla fine del Settecento Immanuel Kant teorizzava precisamente il contrario, ossia il diritto per ogni cittadino del mondo a non essere trattato da nemico in alcuna parte del pianeta: il diritto “all’universale ospitalità”. Ecco: secoli di civiltà europea gettati alle ortiche, come ribadisce, nell’articolo qui sotto, con appassionata amarezza, chi, come Eloisa d’Orsi, ha vissuto da fotoreporter queste giornate apocalittiche di agosto.
E intanto, come le autorità politiche europee si pronunciano? Come affrontano la questione migranti?
La “questione” sono migliaia, decine di migliaia di esseri umani allo sbando, un flusso ininterrotto di disperazione che fugge dal Medio Oriente, talora anche Estremo Oriente, e dall’Africa, verso l’Europa, che, ancora, per loro, rappresenta la civiltà dell’accoglienza, oltre che del benessere. E il flusso è destinato a crescere. V’è chi, come l’antropologo Michel Augier, ha conteggiato, in forma previsionale, un miliardo di esseri umani che si sposteranno nei prossimi quattro decenni. Muri e filo spinato, corrente elettrica, polizia, esercito, cani addestrati alla caccia all’uomo, norme restrittive sui passaggi di frontiera, sospensione di garanzie, annullamento di accordi…: nulla varrà a fermare questo tsunami. La Fortezza Europa è caduta, questa è la verità. Ciò che ne resta è un torrione semidiroccato, in un’isola, circondata da un mare sempre più tempestoso, le cui onde salgono, e si abbattono sull’isola, sgretolano le mura, mangiano la sabbia.
In una situazione siffatta, il “dibattito politico”, di casa nostra e dell’intera asserita “casa comune” europea si concentra sulle “quote” (quanti ne prendete voi, quanti ne prendiamo noi), o semplicemente sull’accogliere o sul suo opposto, il respingere, il lasciare transitare o il fermare. E dall’altra parte c’è la realtà: la realtà di questo gigantesco esodo, testimoniata dalla sequenza di notizie ogni giorno più agghiaccianti, di esseri umani asfissiati in camion o in navi, affogati in barconi che si rovesciano nelle acque di questo enorme lago di morte che è diventato il Mediterraneo, fermati da assurde barriere di filo spinato, aggravato da matasse di lame taglienti, braccati come criminali da uomini in divisa, rinchiusi in piccoli lager…: proprio quando la salvezza sembra raggiunta. Eloisa d’Orsi, che ha seguito le rotte della disperazione, dalla Turchia all’Ungheria, in altri suoi interventi ha raccontato la differenza tra questa ondata che definisce biblica e altri precedenti o concomitanti fenomeni chiamati impropriamente, in parte almeno, “migratori”.
Qui non sono soprattutto giovani maschi, a cercare rifugio nel Vecchio Continente. Qui sono famiglie, spesso famiglie di ceto medio, con donne, spesso incinte, anziani, e tanti, tanti bimbi. Non sono i disperati in cerca di lavoro, sono professionisti, insegnanti, talora studenti, impiegati, artigiani, che sono stati costretti al doloroso passo dell’abbandono della patria, non per “cercare un destino migliore”, come i nostri migranti – la realtà dimenticata dagli italiani, spaventati dal flusso dei profughi, ben pochi dei quali intenzionati a fermarsi da noi -, no; sono piuttosto in cerca semplicemente di sopravvivenza, dato che la sopravvivenza nei loro Paesi (in primo luogo, Iraq, Siria, Afghanistan, Palestina…),è divenuta quasi impossibile per la condizione di guerra permanente. Il punto è: quale l’origine di questa situazione? Chi ha provocato le guerre che incendiano tutto il Medio Oriente? La risposta è facile: l’Occidente, dagli Stati Uniti fino alle propaggini imperialistiche in zona, Israele e Arabia Saudita.
Lo ha notato anche Il Sole 24 ore, per la penna di Alberto Negri (il 28 agosto), in un articolo peraltro non del tutto condivisibile, che siamo noi occidentali ad aver alimentato le guerre da cui queste persone cercano scampo. Il ridicolo Hollande, il sussiegoso Cameron, il grottesco Renzi (la Merkel giganteggia, pur nel suo “andreottismo”), per non parlare del fascista Horbán, e gli altri, appaiono manifestamente spiazzati: nella loro disonestà, di responsabili primi, accodati all’Amministrazione Usa, della destabilizzazione del Nordafrica e del Medio Oriente, ora alle prese con gli effetti “non previsti” degli interventi “umanitari”, o di peace keeping, o di esportazione di democrazia.
Non previsti? E la loro risposta balbettante, palesemente imbarazzata, si concentra su scafisti e passatori, fingendo di dimenticare che se quelli sono “trafficanti di morte”, sono essi stessi, i “capi” del mondo, i responsabili veri, e unici, dell’inferno che la globalizzazione delle ricchezze (per pochi), dopo la globalizzazione della miseria (per tanti), è giunta la globalizzazione delle persone, della intera umanità. E cercare di fermarla con recinzioni e muri è “come cercare di schivare la bomba atomica in cantina”, dice ancora Bauman. E non dimentichiamo il business gigantesco, e macabro, favorito dai respingimenti; perché chi tenta di giungere in Europa, e viene preso e poi rinviato al luogo di origine (ove determinato), presto o tardi ci riprova. È stato calcolato (vedi Francesco Pacifico su Lettera 43, del 20 aprile 2015) un giro d’affari di 10 miliardi di euro l’anno, a beneficio, essenzialmente, di organizzazioni criminali, ossia l’ISIS e le varie mafie nazionali e transnazionali.
E allora che fare? Intanto, assumendo la responsabilità della situazione che noi abbiamo creato, assicurare diritto d’asilo a tutti, senza distinzione tra profughi, migranti, rifugiati, in tutti i Paesi dell’Unione. E altrove, nel mondo sviluppato. Questo nell’immediato. Ma occorre un pensiero lungo. Il quale ci dice che occorre che l’Europa abbandoni ogni politica imperialistica. Smetta di eseguire gli ordini di Washington. Rinunci a decidere di eliminare i leader scomodi, da Milosevič a Gheddafi, da Saddam Hussein ad Assad, senza preoccuparsi delle conseguenze. E non sostenga regimi colonialisti, come quello israeliano. Smetta di tacere davanti agli Stati Uniti che finanziano ora questa ora quella organizzazione “di liberazione”, dall’UCK ai Taliban, fino ai fanatici del sedicente Stato Islamico, salvo poi accorgersi, troppo tardi, che il serpente è pronto a mordere la mano, e che gli amici di ieri, giunti al potere, sono i nemici di domani. E soprattutto occorre che l’Europa e l’Occidente tutto diano una patria ai palestinesi, perché là, nel nodo Israele-Palestina risiede la prima scintilla pronta a incendiare la prateria.
Utopie? Può darsi. Ma intanto la realtà che è nel nostro presente, è una distopia. Una utopia al contrario. Vogliamo accontentarci di questa? E assistere inerti, o complici, alla tragedia d’Europa? O vogliamo batterci per rovesciare i tavoli e cambiare le cose?
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 1 settembre 2015

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