di Guido Viale
Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.
È un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselbloem o in quella (troppo piena) di uno come Schaeuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.
La prima cosa che sapreste, mettendovi nei panni di quei profughi o di quei migranti (una differenza che da tempo esiste solo nella mente e nei discorsi abietti di uno come Salvini), è che nessuno vi vuole: non il paese da cui siete stati cacciati da guerre e miseria; non quello in cui vorreste arrivare, che vi respinge con crescente furore; non quello in cui siete temporaneamente in transito, che cerca solo di sbarazzarsi di voi. Per tutti loro, semplicemente, non dovreste esistere.
È una condizione che ormai riguarda, in Europa, decine di migliaia di persone, escluse dalla condizione di esseri umani. Qualcosa di più dell’apartheid. Sono sottouomini; persone per cui “non c’è posto” nel mondo; da eliminare. Il “come” non si è ancora deciso; o non si ha ancora il “coraggio” di deciderlo (quelli come Dijsselbloem o Schaeuble per ora fingono, o forse sono convinti, di occuparsi d’altro). Ma nel Mediterraneo lo si lascia fare ai naufragi (la missione Triton, “sorvegliare le coste”, è stata concepita per questo): se ne lasciano affondare un po’ nella speranza (vana) che gli altri desistano: per doverne “salvare” di meno.
Ma non è una soluzione, come non lo è bombardare i barconi, portare la guerra in Libia o costruire altri muri e reticolati. Perché nessuno di loro può tornare – per ora; e per molti anni – da dove è scappato. Perché ai confini dell’Europa premono ormai almeno sei milioni di profughi (e domani saranno dieci e più: un intero popolo). Sono il prodotto di guerre, occupazioni, devastazioni e contese per accaparrarsi risorse che l’Europa in parte ha promosso; in parte ha tollerato; e in parte se ne è resa complice, accodandosi a guerre volute o attizzate dagli Stati Uniti.
Senza rendersi conto, però, che ormai la guerra, o uno stato di belligeranza continua prodotta dalla disgregazione di Stati che si voleva continuare a dominare, la circonda ormai da tutte le parti: a Est come lungo i confini del Mediterraneo. Se la Comunità, poi Unione, Europea era nata per porre fine alle guerre al proprio interno, le politiche adottate, insieme o separatamente, dai singoli Stati membri hanno ormai portato la guerra – o uno situazione che da un momento all’altro può sfociare o risfociare in guerra – ai suoi confini. Una situazione così non può durare a lungo senza esplodere e l’ondata dei profughi, che non è destinata a finire, e che non si riesce a fermare, non ne è che la prima pesante avvisaglia. Anche se quelli come Dijsselbloem e Schaeuble pensano che il futuro dell’Europa si decide solo saldando debiti che loro hanno creato.
Ma l’Europa non è solo quello di cui si occupano i suoi governanti; la lotta per scaricarsi a vicenda il “peso” di poche (finora) decine di migliaia di profughi divide tra loro gli Stati membri ben più della paura di subire domani il castigo inflitto oggi alla Grecia: che invece, finora, ha solo compattato i rispettivi Governi. Certo, il modo in cui la Grecia viene “aiutata” dall’Europa toglie non poco appeal a quel “aiutiamoli a casa loro” con cui, da Salvini alla Merkel, si crede, o si fa credere, di potersi sbarazzare del problema dei profughi.
Invece, mai come ora la situazione dell’Europa mette all’ordine del giorno il problema della pace. L’Europa sopravviverà, cambiando pelle anche sulle questioni di ordine interno, se saprà impegnarsi a cercare una soluzione a tutte quelle guerre; o ad aiutare gli interessati a trovarla. Ma chi sono gli “interessati”? Prendiamo il caso della Siria: tutto è cominciato con una guerra di bande per impadronirsi di una rivolta popolare contro il regime dispotico di Assad: l’ultima delle “primavere arabe”.
Ne è nato l’Isis, a lungo alimentato da quelli che ora sostengono di combatterlo, o fingono di farlo. E ha ridisegnato tutto il quadro del Medio Oriente, dalla Turchia alla Libia, passando, per ora, per Iraq e Yemen, fino a coinvolgere la Nigeria e altri paesi subsahariani. Ma si potrà mai arrivare a una pace in Siria affidandola alle potenze che oggi se ne disputano il destino? Non c’è un’entità diversa dalle organizzazioni fantoccio come il Consiglio nazionale siriano o la Coalizione nazionale siriana – completamente controllati dai Governi che li hanno creati e li finanziano – a cui possano fare riferimento tutti coloro che, dentro e fuori il paese, vorrebbero la fine del massacro a cui sono esposti?
Quell’entità in realtà c’è; o, meglio, potrebbe esserci: sono i profughi siriani che hanno raggiunto l’Europa, o che cercheranno di raggiungerla domani, se solo nei loro confronti venisse adottata una politica di vera accoglienza; se gli si offrisse, in tutti i paesi dell’Europa, un posto e una condizione che ne legittimasse la presenza; che permettesse loro di organizzarsi e di far sentire la loro voce; di valorizzare i legami che mantengono o possono riallacciare con le famiglie e le comunità dei luoghi da cui sono fuggiti; di darsi una rappresentanza e sedere al tavolo delle trattative.
E così per tutti quei contingenti in fuga da paesi in condizioni analoghe: Kurdistan, Iraq, Eritrea, Somalia, Sudan, Afghanistan, Nigeria e chissà quanti altri. Certo, nell’immediato, non sarebbe una mossa risolutiva. Ma, “mettendosi nei loro panni”, sarebbe sicuramente una base per ricostruire una prospettiva di pace e un programma di rinascita delle loro comunità nazionali e delle loro terre, per restituire a tutti i loro connazionali l’idea di un’alternativa allo stato di cose presente. Una prospettiva che uscirebbe rafforzata garantendo dignità e diritti alle centinaia di migliaia di loro connazionali sfruttati come schiavi nei paesi europei.
L’Europa di domani, se ancora ci sarà come attore sullo scacchiere geopolitico globale, è questa: una comunità che abbraccia, idealmente e concretamente, tutti coloro che hanno cercato, che cercano e che cercheranno ancora nell’approdo alle sue coste o ai suoi confini una alternativa allo stato di caos dei paesi da cui sono fuggiti. Nessuno è “più Europa” di loro, che l’hanno cercata e inseguita con tanto impegno, mettendo a rischio la propria vita, la propria integrità fisica, il proprio futuro. Nessuno è più portatore di pace di coloro che fuggono le guerre anche a costo della propria vita. Nessuno minaccia l’integralismo su cui è stata costruita l’identità dello Stato islamico e dei suoi emuli, quanto le donne di questo popolo di fuggiaschi, se messe in condizioni di liberarsi dal gioco patriarcale sotto il quale le risospingono le discriminazioni a cui sono sottoposte nei nostri paesi. È questa l’alternativa senza la quale l’intero edificio del pax europea, premessa e promessa dell’Europa disegnata a Ventotene, rischia di essere travolto. Ed è anche l’unica vera alternativa alla imminente frantumazione dell’Unione Europea perseguita dai Dijsselbloem e Schaeuble.
Questo articolo è stato pubblicato dal Manifesto sardo il 7 agosto 2015 riprendendolo dal Manifesto dello stesso giorno