Grecia: cos'è accaduto. E ora?

1 Luglio 2015 /

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di Andrea Fumagalli
La possibilità che la Grecia e i creditori possano trovare un accordo è oramai del tutto tramontata. All’inizio di questa settimana di travaglio e di passione, l’offerta del governo Tsipras di venire incontro ad alcune richieste della Troika (aumento parziale Iva e dell’età pensionabile, seppur in tempi lunghi) per recuperare i 400 milioni di differenza tra le parti (pari allo 0,002 del Pil Europeo!) aveva fatto credere che fosse possibile giungere a una soluzione. Invece il risultato è stato esattamente l’opposto.
1. L’irrigidimento dei creditori
Abbiamo infatti assistito a un irrigidimento delle posizioni dei creditori. Il primo, tra loro, è stato il Fmi, poi, il 26 giugno, è stato il turno dell’Eurogruppo. Perché tale irrigidimento, quando si era quasi vicino al traguardo di un accordo economico utile a tutti?
La risposta è molto semplice. La trattativa in corso da quanto Syriza ha vinto le elezioni in Grecia non è mai stata una trattativa economica, finalizzata a un accordo che consentisse alla stessa Grecia di rimanere, ufficialmente, all’interno dell’Eurozona e ai creditori di avere la garanzia che gli interessi su un debito – che erano i primi a sapere inesigibile – venissero pagati nei tempi prestabiliti. È stata invece una trattativa squisitamente politica.
In un certo senso, possiamo paragonarla alla trattativa di Versailles all’indomani della Prima guerra mondiale, formalmente avviata per quantificare le riparazioni di guerra da parte della Germania sconfitta, ma di fatto finalizzata a ridisegnare la geopolitica europea in nome della supremazia inglese e francese. Sappiamo bene come l’ottusità dei vincitori di allora, imponendo condizioni capestro alla Germania, abbia innescato i processi storici che avrebbero portato all’ascesa di Hitler e quindi alla Seconda guerra mondiale. Keynes lo aveva ben compreso.

Così come allora, oggi non occorre essere degli indovini per immaginare come l’ottusità dei creditori (Fmi e Eurogruppo, in primis, con l’avvallo della Bce) rischia di trasformarsi in un boomerang assai pericoloso, pur di ribadire la supremazia della plutocrazia europea in nome del dogma del libero mercato e dello sfruttamento capitalista.
2. La chiusura del Fondo
Il Fmi è stato il primo a dichiarare che le proposte della Grecia erano insufficienti, chiedendo di eliminare quella tassa di solidarietà sui redditi più alti e sui profitti delle grandi imprese se superiori ai 500.000 euro, che, secondo il piano greco, avrebbe dovuto portare nelle casse statali circa 200 milioni di euro. Al di là della “ovvia” considerazione che le politiche d’austerity non devono essere uguali per tutti ma devono salvaguardare i ricchi, ciò che ha maggiormente irritato il Fondo è stato il mettere in discussione la dottrina (assai dubbia, come più volte empiricamente dimostrato) che gli aumenti delle tasse sarebbero dannosi per la crescita mentre le riduzioni di spesa pubblica la favorirebbero.
E a tal fine, come messo in luce dal Wall Street Journal, l’Fmi ha proposto una serie di rettifiche di segno opposto e impossibili da accettare da parte greca. Oltre all’eliminazione della tassa sui ricchi, si voleva, infatti, imporre alla Grecia l’obbligo di garantire un saldo primario crescente negli anni sino al 3%, un aumento generalizzato dell’Iva al 23% (perché quando si impongono imposte regressive che penalizzano le fasce reddituali più deboli, allora l’aumento delle tasse può essere accettato!), il tetto dell’età pensionabile a 67 anni entro il 2025 e non il 2037 come richiesto dalla Grecia, accompagnato da un’ulteriore riduzione del livello delle pensioni.
In assenza di assenso del governo Tzipras su tali snodi, nel caso in cui la Grecia non fosse risultata in grado di versare la tranche di 1,6 miliardi di euro nelle sue casse entro il 30 giugno, immediatamente il Fondo avrebbe, già il giorno dopo, avviato la pratica di default, contraddicendo, con ciò, le proprie stesse regole. Queste, infatti, prevedono, in caso di mancato rispetto dei tempi di pagamento, la proroga di un mese e poi altri tre mesi prima di concordare l’eventuale dichiarazione di default.
Il ricatto nei confronti della Grecia appare, con ciò, in tutta la sua evidenzia. Ça va sans dire che questo primo blocco della trattativa non è stato mai messo in discussione dagli altri creditori (Eurogruppo e Bce), che, pure, avevano ben più da perdere da un eventuale default greco (220 miliardi contro i 39 miliardi di credito vantati dallo stesso Fmi).
3. I compitini della Grecia
Come riportato anche su La Voce.info, sito notoriamente rigido sul pareggio di bilancio e sulla necessità di tenere i conti pubblici in ordine, la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori le avevano sciaguratamente richiesto di portare a termine. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: si tratta del più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario (al netto degli interessi sul debito), corretto in funzione del ciclo congiunturale, supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa(l’Italia è seconda).
Tutto ciò è avvenuto a costi esorbitanti: il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fmi di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009: al riguardo, una delle accuse del Fmi a Varoufakis è stata quella di avanzare stime economiche non attendibili…). Abbiamo assistito a una riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); a una riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; a una riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti, riduzione delle pensioni in 5 anni di oltre il 40% (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40).
Si tratta proprio di quelle “riforme strutturali” più volte richieste come necessarie e che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015 (l’Italia è al cinquanaseiesimo posto): una classifica che indica gli stati più virtuosi per favorire la profittabilità delle imprese.
La medicina fatta ingoiare ai greci non solo è stata assai amara, ma, quel che è ancora più grave, ha peggiorato la salute del paziente: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.
4. La paura dell’Eurogruppo
L’Eurogruppo non era sicuramente dispiaciuto dalla rigidità del Fmi se questa poteva essere utile a portare la Grecia a più miti consigli. Soprattutto non erano dispiaciute le oligarchie spagnole e italiane (indecise tra una presa di posizione nettamente contraria alla Grecia nei fatti e un ipocrita appoggio a parole ma opposto nei fatti – posizione tipica del governo italiano di Renzi).
Ma quando Merkel e Hollande invitanoTsipras a accettare la “generosa offerta” dei creditori di posticipare il tutto di sei mesi, accettando la tranche di finanziamento di 7,2 miliardi ma impegnandosi ad accogliere il contenuto del piano del Fmi “senza condizioni”, si capisce che non ci sono più margini di trattativa.
(Mutatis mutandis, la dichiarazione della signora Merkel mi ha ricordato quella di Paolo VI al culmine del rapimento Moro da parte delle Brigate Rosse, quando, invitato a perorare una conclusione positiva della trattativa in corso, il pontefice si limitò a chiedere agli “uomini delle Brigate Rosse” di liberare Moro “senza condizioni”…)
A ciò si aggiunge, in queste ore, lo schiaffo politico di Tsipras di indire per il prossimo 5 luglio un referendum popolare per approvare o respingere le proposte “indecenti” dei creditori. È la goccia che fa traboccare il vaso nei rapporti tesi tra le parti. E sta tutta qui la natura squisitamente politica che è stata al centro della trattativa di questi mesi e che, inevitabilmente, ne ha condizionato la conclusione: la Grecia esprime comunque la volontà di rimettere in discussione la politica di austerity, non solo perché il suo fallimento appare conclamato da un punto dei vista dei possibili risultati e perché spinge lungo una strada irreversibile ma perché viene imposta in modo dittatoriale e anti-democratico. Abbiamo il fondato sospetto che lo sprezzo verso forme di democrazia dell’Eurogruppo non si riferisca solo alla Grecia ma si rivolga anche alla situazione spagnola per evitare possibili effetti contagio nel caso di una vittoria elettorale di Podemos il prossimo ottobre.
Il libero mercato, in nome dell’efficienza e delle gerarchie imposte dal capitalismo finanziarizzato contemporaneo, fa a pugni con un’idea, seppur declinata in modo più formale che sostanziale, di democrazia. La governance economica si deve imporre su quella politica e giuridica (vedi Ttip), stroncando sul nascere qualunque nuovo tentativo di riportare al centro l’azione politica.
La critica, al limite, può essere mossa solo da coloro che fanno parte ordinatamente dell’attuale plutocrazia (i paesi Brics, ad esempio), non sicuramente da chi prospetta una possibile alternativa.
5. E ora?
In queste ore, giornalisti, esperti, tecnici si sbizzariscono nel provare a individuare lo scenario di ciò che porrebbe accadere. Non tanto alla Grecia, delle cui sorti pochi si interessano, ma dei possibile feedback collaterali che potrebbero investire in primo luogo l’Europa e poi il mondo.
Al riguardo, partiamo da alcuni punti fermi, dando per scontato che la Grecia non rispetterà la deadline del 30 giugno e quindi non pagherà 1,6 miliardi di euro al Fmi.
Tecnicamente, la Grecia entra in default. Il Fmi non potrà far altro che riconoscere ciò. Ciò tuttavia non significa che automaticamente la Grecia fuoriesca dalla zona Euro. Al momento attuale non c’è un regolamento giuridico chiaro sull’uscita di un paese dall’Euro. Tale evenienza è possibile solo se un paese decide di tornare alla propria moneta nazionale. In altre parole, nessun paese dell’area Euro può essere cacciato contro la sua volontà.
Chiarito questo punto, vi possono essere quattro possibili procedimenti che possano consentire l’uscita di un paese dalla zona Euro:

  • 1) Il referendum sull’Euro
  • 2) L’uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati (TUE e TFUE -Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea)
  • 3) Il recesso dall’Eurozona in base all’art.139 e all’art.140 TFUE
  • 4) Recesso dai Trattati Europei secondo il diritto internazionale

Il primo è quello più noto ma il meno applicabile, dal momento che un referendum sull’uscita dall’Euro non può essere approvato dalle legislazioni nazionali (come nel caso dell’Italia o della Grecia), in quanto non è ammesso un referendum abrogativo su un Trattato Internazionale. Il suo valore sarebbe quindi solo consultivo e simbolico.
La modifica dei Trattati Europei implica una procedura molto complessa e lunga e non sempre chiara. Come affermato da Jacques Attalì, uno dei padri del Trattato di Maastricht: “Innanzitutto, coloro che (di cui ho avuto il privilegio di far parte) hanno partecipato alla stesura delle prime versioni del trattato di Maastricht, hanno fatto in modo che non fosse possibile uscire. Ci si è accuratamente dimenticati di scrivere l’articolo che permettesse l’uscita”.
Infine, occorre ricordare che i Trattati Europei, nonostante le loro peculiarità, sono a tutti gli effetti dei Trattati di diritto internazionale e, in quanto tali, soggetti alle regole del diritto internazionale pattizio. Ricorrere al diritto internazionale può essere l’unica possibilità per “cacciare” un paese fuori dall’Euro o dall’Unione Europea, contro la sua volontà. Ma, certo, imbastire un procedimento giuridico in tal senso non è facile, soprattutto se si considera che la violazione del limite del 3% deficit/PIL (che è il motivo principale per giustificare la volontà di disdire unilateralmente tali accordi) è stata compiuta da tutti i paesi, compresa la Germania dal 2002 al 2005 e nel 2009-2010, a dimostrazione dell’insostenibilità dei parametri originariamente posti dai Trattati.
Ne consegue che la Grecia, piaccia o non piaccia, se lo vuole (così come sempre dichiarato dall’attuale governo di Syriza), rimarrà all’interno dell’area Euro e non tornerà alla dracma. Ne consegue che il possibile esercizio del diritto al default non può essere limitato al solo paese in questione ma interessa tutti i paesi dell’Eurozona. Di ciò l’Eurogruppo è perfettamente cosciente (il Grexit, nonostante quanto scritto dai giornali, non è oggi all’ordine del giorno) e ne sono coscienti soprattutto i paesi più rigidi (Germania e Spagna in testa), al punto tale che, pochi giorni fa, subito dopo il fallimento delle trattative, il 27 giugno, sono state fatte forti pressioni sulla Bce perché dopo il 30 giugno chiudesse i rubinetti della liquidità di emergenza (Ela): liquidità che sino ad oggi ha consentito il funzionamento del sistemo del credito ellenico, nonostante l’aumento della fuga di capitali a vantaggio delle banche europee. Nell’ultima settimana, la Bce ha ritoccato all’insù la disponibilità di liquidità per la Banca Centrale greca sino a portarla a 89 miliardi di Euro e, resistendo alle pressioni dei falchi, il 28 giugno Mario Draghi ha affermato che continuerà a fornire liquidità di ultima istanza alla Grecia, pur senza aumentarne il volume. In altre parole, Draghi si rifiuta di “bastonare il cane che sta affogando” come chiestogli da molti paesi europei per indurre la Grecia a ritornare alla dracma ma, allo stesso tempo, non fa nulla per impedire che possa affogare in futuro.
Per la Bce, esiste poi anche il rischio che la Grecia non sia in grado di rimborsare all’istituto di Francoforte parte dei titoli del debito pubblico greco, che aveva acquistato, in base al programma Smp, nella fase più acuta della crisi, fra il 2010 e il 2012. La prossima scadenza è il 20 luglio, quella successiva in agosto, per complessivi 6,7 miliardi di euro.
Solo azzerando la liquidità greca espressa in Euro si può obbligare la Grecia a uscire dall’Euro. Questa sembra essere la strategia dell’oligarchia europea, anche a costo di rinunciare agli interessi sul debito, rischiando un aumento dell’instabilità dei mercati finanziari europei. E i primi effetti si fanno sentire, con la decisione del governo greco di chiudere la Borsa di Atene e le banche elleniche per sei giorni.
Tuttavia, si noti bene, tale rischio non colpisce il capitale finanziario privato ma piuttosto, ancora una volta, i bilanci pubblici europei.
Infatti, le convenzioni dominanti all’interno delle borse europee, pur con qualche oscillazione, non sembrano evidenziare particolare incertezza o paura, anche perché il fallimento delle trattative potrebbe avere effetti svalutativi sulla moneta unica europea (come sta succedendo in questi giorni), favorendo in tal modo le produzioni dei paesi maggiormente esportatori.
Diversa è invece la situazione per i conti pubblici nazionali (in assenza di un bilancio pubblico europeo).
L’Italia ad esempio vanta crediti nei confronti della Grecia stimabili in 65 miliardi, poco meno della Francia e della Germania. Il rischio che il fallimento della Grecia coinvolga, con ciò, gli altri stati membri è assai elevato nel senso che potrebbe avere ripercussioni in termini di ulteriore austerity nelle prossime leggi di stabilità.
In poche parole, così come è successo nel 2008-09, una situazione di crisi dovuta all’arroganza dei creditori privati oggi trasformati in creditori pubblici sarà pagata non dai veri responsabili ma dalla collettività, secondo il più classico degli adagi: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite.
6. Ma c’è una via d’uscita…
Un ritorno della Grecia alla dracma avrebbe risultati pesanti sulle condizioni di vita della popolazione, già duramente colpita in questi anni. Non solo perché la svalutazione della moneta ellenica avrebbe effetti inflazionistici che, anche se non elevatissimi, comunque ridurrebbe il già scarso potere d’acquisto dei redditi, soprattutto da lavoro. Ma, poiché la maggior parte del debito greco è detenuto in Euro, il pagamento degli interessi lieviterebbe di molto, favorendo un circolo vizioso senza fine e soprattutto senza intaccare l’oligarchia finanziaria europea. Ricordiamoci infatti che la moneta è uno strumento (qualunque sia la forma o il nome che assuma) che esprime rapporti sociali di potere.
Cambiare lo strumento non significa invertire i rapporti di forza.
Questi ultimi invece potrebbero essere intaccati, se parallelamente all’Euro (e non in alternativa), si agisce per costruire un circuito monetario-finanziario alternativo, in cui lo strumento monetario non è finalizzato solo a fluidificare l’attività di scambio (come in quasi tutte le sperimentazioni delle monete complementari) ma piuttosto a finanziare ciò che oggi è la base della valorizzazione del comune. E quale è la base della valorizzazione di quel comune di cui il capitale si appropria e fa suo? Sono i servizi sociali, la cooperazione e la riproduzione sociale e anche le produzioni alternative o pseudo-alternative.
Dobbiamo pensare, quindi, a una moneta del comune che entri nel processo economico, e quindi abbia ragione di esistere, nel momento stesso che diventa finanziamento di investimento di valore d’uso e della riproduzione sociale della forza lavoro. In altre parole, remunerazione di quel lavoro vivo che oggi è precario, sottopagato e sempre più erogato gratuitamente.
Da questo punto di vista, la moneta del comune come mezzo di finanziamento e di remunerazione è strumento di autonomia e auto-determinazione, in grado di contrapporsi allo sfruttamento e alla ricattabilità imposta dal processo di sussunzione vitale che oggi governa il rapporto capitale-lavoro e dall’imposizione di politiche d’austerity che hanno l’unico scopo di rimborsare i creditori.
È la cooperazione sociale che crea la moneta e non la moneta che crea le relazioni economiche di scambio. In altri termini, è la potenza del lavoro vivo, liberato dalla necessità della sopravvivenza, a generare la moneta del comune. Esattamente l’opposto della filosofia che ha generato l’Euro. In Europa, infatti, prima si è costituita la moneta unica, pensando che fosse sufficiente per costruire un’identità di Europa, partendo dal presupposto (neoliberista) che la moneta sia neutrale e non l’esito di rapporti sociali gerarchici.
In un certo senso assistiamo oggi, drammaticamente, all’inverarsi della critica al modello di costruzione dell’Europa già avanzato molti anni fa: un’Europa non sociale ma dei potentati finanziari che ci fece parlare, fin dal 1994, di Antieuropa delle monete.
Questo articolo è stato pubblicato da Inchiesta online il 29 giugno 2015 riprendendolo

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