di Amina Crisma
La storia dell’Occidente è stata incessantemente animata dalla capacità di immaginare e di progettare un mondo diverso dal presente, ci ricorda Paolo Prodi nel libro Il tramonto della rivoluzione (ed. Il Mulino 2015), ma tale capacità di visione e di progetto appare oggi perduta: quale futuro ci attende senza quella tensione trasformatrice?
1. Il tramonto della rivoluzione e il declino dell’Occidente
“Libertà è poter immaginare un nuovo inizio”: tornano in mente le parole di Hannah Arendt, leggendo Il tramonto della rivoluzione di Paolo Prodi (Il Mulino 2015), che sarà presentato insieme all’autore da Massimo Cacciari a Bologna, allo Stabat Mater dell’Archiginnasio giovedì 18 giugno alle 17,30.
Il libro ci propone una limpida riflessione su un tema che troppo spesso viene eluso, e che invece ci riguarda tutti, e da vicino:
“Il mito della rivoluzione è finito. Ma l’Europa, l’Occidente sono nati e cresciuti come “rivoluzione permanente”, cioè come capacità nel corso dei secoli di progettare una società alternativa rispetto a quella presente: ora questa capacità di progettare un futuro diverso sembra essere venuta meno. (…) Credo che l’innegabile declino dell’Europa non possa essere compreso soltanto sul piano geopolitico o geoeconomico (…) ma debba essere spiegato con il venir meno della capacità rivoluzionaria dell’Europa nelle sue coordinate antropologiche di fondo”.
Come Prodi ci ricorda, la storia dell’Occidente e dell’Europa è incessantemente animata, a far tempo dal Medioevo dei nostri comuni e delle nostre università, dalla capacità di immaginare e progettare un mondo diverso da quello presente. Ma tale capacità di visione e di progetto è oggi perduta, e “la parola rivoluzione” – egli osserva – è entrata tanto in disuso da diventare quasi soltanto oggetto d’antiquariato o di vignetta satirica”.
Ma che cosa resta, dell’Occidente e dell’Europa, senza quella capacità di progetto e di visione, senza quella tensione trasformatrice? E senza quella, cosa resta della politica?
2. Un’Europa senz’anima?
Questo libro induce a interrogarsi su cosa sia oggi l’Europa. Oggi l’Europa è, fra l’altro, quello scoglio di Ventimiglia dove cento profughi africani restano in questi giorni tenacemente abbarbicati, difendendo come possono, loro sì, il loro progetto e il loro sogno, mentre una Glorieuse Patrie si rifiuta di aprire loro la sua porta.
Tornano alla mente altri volti, altre storie. Come quella di François Cheng, scrittore e maestro di interculturalità, grande tramite fra civiltà cinese e Occidente il cui nome europeo è un dichiarato omaggio a Francesco d’Assisi, che ha lasciato da esule il natio Sichuan nel 1949, e da allora vive in Francia. Tante sue pagine dedicate a paesaggi francesi e a paesaggi italiani ci dicono che cos’è (che cos’era?) un’Europa ospitale, di cui stiamo forse perdendo la nozione e la memoria.
Una volta ho chiesto a sua figlia, la sinologa Anne Cheng, mentre ne stavo traducendo la Storia del pensiero cinese (Einaudi 2000), che cosa fosse per lei l’Europa. “Per me l’Europa è la pluralità” – mi ha risposto. E di un’Europa plurale e ospitale, importante per la loro formazione, mi hanno parlato, ad esempio, altri interlocutori, come Mohammed Haddad e Abderrazak Sayadi, dell’Università di Tunisi, incontrati qualche anno fa ad Amman dove si discuteva di Religions et réformes (LIT Verlag 2007).
C’era una volta un’Europa plurale e ospitale, dove era possibile dire: “à nous la liberté”.
3. Rivoluzione: una parola diventata desueta in Cina
D’altra parte, la parola “rivoluzione” non è diventata desueta solo da noi. Anche nella Repubblica Popolare Cinese è oggi accuratamente evitata dalla retorica dominante, che appare soprattutto protesa a celebrare solennemente la conclamata Grande Continuità della Cina Perenne, dall’impero al turbocapitalismo. L’indirizzo prevalente dei discorsi correnti si declina all’insegna di un’asserita conciliazione fra tradizione e modernità, fra passato e presente, con un’accentuata propensione a ignorare ogni elemento di conflitto, di frattura, di contraddizione (se ne è discusso, ad esempio, in un dossier di Inchiesta, n. 181, luglio/settembre 2013). In particolare, c’è tutta una diffusa tendenza, nel linguaggio delle autorità di partito e di governo e delle élites accademiche, a presentare in termini negativi il cosiddetto “radicalismo novecentesco”: categoria in cui tutte le vacche sono bigie, e nella quale sono surrettiziamente inglobate realtà diversissime fra loro, dalle Guardie Rosse della Rivoluzione Culturale agli anarchici, alle femministe, ai liberali e ai democratici del primo Novecento.
In questo clima, accade che i testi di colui che è reputato il più grande scrittore cinese del secolo scorso, autentico creatore della letteratura cinese moderna, Lu Xun, rivoluzionario, illuminista, individualista, critico ironico di ogni conformismo (incluso quello della rivoluzione proletaria, per la quale egli si rifiutava di suonare il piffero), siano espunti dai manuali scolastici, con la motivazione ufficiale che “sono troppo difficili”.
4. Il “Mutamento del Mandato”: rivoluzione e pensiero antico
Eppure, la parola “rivoluzione” in cinese si dice con un termine pregno di risonanze profonde e antiche: si dice geming, ossia “Mutamento del Mandato”. Il Mandato Celeste era, nella tradizione politica cinese, la legittimazione all’esercizio del potere sovrano proveniente dalla suprema divinità, il Cielo. Su questo tema, si dicono cose molto interessanti nelle fonti antiche. Uno dei più grandi pensatori confuciani di tutti i tempi, Mencio, vissuto nel IIl secolo a.C., ad esempio, dichiara:
“Il Cielo vede con gli occhi del popolo, ode con le orecchie del popolo. E’ tramite il popolo che il Cielo manifesta il suo Mandato”.
Il Mandato Celeste in tale concezione non è irrevocabile. Ciò che legittima l’esercizio del potere sovrano è la sua adesione al senso dell’umanità e al senso della giustizia (renyi): il sovrano che vi contravvenga può, anzi deve, essere rovesciato. In nome dell’umanità e della giustizia, Mencio arriva addirittura a dichiarare lecito il regicidio, se il sovrano sia diventato un feroce tiranno.
L’etica menciana non è prona acquiescenza: è obbedienza a una sovrana norma di giustizia, che sta più in alto di qualsiasi potere costituito, così come la volta del Cielo sovrasta anche il più eccelso degli uomini, e per la quale in memorabili passi Mencio dichiara che si deve essere pronti anche a sacrificare la propria vita. Ed è dovere del ministro leale esercitare nei confronti del sovrano la critica e la rimostranza – un dovere a cui si attennero nel corso della millenaria storia cinese molti funzionari- letterati, esponendosi a gravissimi rischi con un coraggio morale non diverso da quello che ha ispirato la grande tradizione del nostro stoicismo.
Il progetto menciano non è una celebrazione dell’esistente: è l’utopico progetto di un’umana armonia fondata sull’amore e sulla sollecitudine reciproca, ed è un’implacabile denuncia dei sovrani del suo tempo, “pastori d’uomini avidi di massacro”.
Ho offerto una sintesi di queste tematiche, sulle quali si possono vedere fra l’altro Mencio e l’arte di governo di Maurizio Scarpari (Marsilio 2013) e i miei Il Cielo, gli uomini (Cafoscarina 2000) e Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica (Unipress 2004), in Attualità di Mencio, www.inchiestaonline.it.
5. “L’incubo degli ultimi uomini” come futuro?
Il Mandato Celeste compare significativamente anche nel libro di Paolo Prodi, in un’accezione diversa da quella menciana che si è sopra evocata, nei termini di “continuità dell’ordine universale naturale”, ossia in una prospettiva memore di un grande tema della riflessione di Max Weber, a cui ha dedicato fra l’altro un bellissimo saggio Dimitri D’Andrea, L’incubo degli ultimi uomini (Carocci 2005). L’incubo degli ultimi uomini vi è definito come “l’incubo confuciano”, ossia come l’avvento di un tipo di soggettività che fa dell’adattamento al mondo il principio ispiratore del proprio agire: è la forma estrema del rischio che incombe sulla tarda modernità.
Ne Il tramonto della rivoluzione si leggono in proposito pagine penetranti:
“Al di fuori delle grandi religioni monoteiste si rinnova e si afferma l’etica confuciana dell’identificazione dell’ordine morale con l’ordine politico e con l’ordine cosmico. (…) La Cina non soltanto è vicina, non soltanto è una potenza che ci sovrasta sul piano geopolitico ed economico, ma sta entrando dentro di noi insieme alle nuove tecnologie. Una nuova religione economico-politica per la civiltà del capitalismo finanziario e dei consumi? Sono fermamente convinto che ci troviamo di fronte a una svolta antropologica”.
Una svolta in cui si configura un grande pericolo: “l’annullamento dell’individuo in un ordine cosmico in cui viene negata la responsabilità personale, la scelta tra il bene e il male”.
6. Ma il Mandato Celeste non è irrevocabile
In un libro memorabile di Etienne Balasz, La burocrazia celeste (Il Saggiatore 1971), molti anni fa si prefigurava in termini analoghi un futuro spersonalizzato, in cui si sarebbero compiutamente dispiegate le possenti tendenze totalitarie e uniformanti di un mondo “pulsante tutto a uno stesso ritmo”, divenuto un immenso e dispotico meccanismo impersonale.
Certo, quest’inquietante prospettiva è per molti versi e in larga misura già operante sotto i nostri occhi. E’ già largamente operante, oltre che nei fatti, in un linguaggio in cui gli esseri umani diventano “flussi”, mere cifre di una opaca contabilità. E’ innegabile che c’è tutta un’immensa e poderosa corrente che va in questo senso.
E tuttavia, forse dovremmo osare continuare a pensare, insieme a Mencio, che il Mandato Celeste non sia irrevocabile. Forse dovremmo ostinarci a pensare che ci sia spazio per il mutamento; che ci sia spazio, se lo vogliamo, per un progetto di mondo abitabile per noi e per i nostri fratelli umani. Delle risorse preziose in questo senso si possono attingere da tante parti: non solo in Europa e in Occidente, ma anche nel pensiero cinese, che in molte sue significative espressioni è tutt’altro che una celebrazione dell’autoritarismo e una conformistica adesione al Dispotismo Orientale. Ne era ben consapevole John Dewey che, visitando la Cina alla vigilia degli anni Venti esortava i suoi giovani ascoltatori a riscoprire i “germogli di democrazia” insiti nelle loro antiche tradizioni; e lo ha persuasivamente mostrato, ad esempio, Pier Cesare Bori nella sua ricerca di consenso etico fra culture (Marietti 1991).
Non casualmente, da Tolstoi a Thoreau, coloro che hanno ispirato le grandi correnti dell’opposizione non violenta e della resistenza civile si sono riferiti non solamente a fonti evangeliche o del pensiero liberale, ma anche a fertili sorgenti della Cina antica quali il Laozi. Che l’antica sapienza, di ogni latitudine, abbia in questo senso qualcosa da dirci, era d’altronde convinzione di Simone Weil, quando ne L’enracinement (La prima radice, 1949) enunciava i nostri doveri verso le creature umane: risorse antiche che possono risultare oggi più che mai attuali per i nostri pensieri moderni, per la costruzione del progetto – culturale, morale, politico – di un più vasto e inclusivo umanesimo, di un più largo e rivisitato illuminismo.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 17 giugno 2015