di Gianfranco Sabattini
Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, ucciso nel 1989 mentre celebrava la messa dagli “squadroni della morte” che operavano al soldo della destra salvadoregna, è stato beatificato sabato 23 maggio; il martirio dell’arcivescovo viene assimilato, nell’immaginario collettivo, a quello patito nel 1170 da Thomas Becket (celebrato nel noto dramma teatrale di Thomas Stearns Eliot “Assassinio nella Cattedrale”).
Al di là delle similitudini, le ragioni dell’assassinio di Romero hanno una ben altra motivazione rispetto a quelle che hanno determinato la morte violenta dell’arcivescovo di Canterbury; infatti, mentre l’assassinio di Thomas Becket è avvenuto a causa della suo dissidio con Enrico II, re d’Inghilterra, sui diritti reciproci della Chiesa e della Corona, quello di Romero è avvenuto, non tanto in “odium fidei”, come vorrebbe la gerarchia cattolica e come recita la motivazione della sua beatificazione, quanto per essersi opposto alle angherie, sfociate in guerra civile dopo la morte dell’arcivescovo di San Salvador, cui era sottoposto il popolo salvadoregno.
Sulla vita e sull’impegno civile, oltre che su quello pastorale, di Romero, Roberto Morozzo della Rocca, storico dell’Università di Roma Tre, ha scritto una ricca monografia intitolata “Oscar Romero. La biografia”. “Oggi si riconosce – afferma Morozzo – che Romero, sebbene uomo pubblico determinante per le sorti del suo Paese, era un personaggio della Chiesa prima che della politica. […] La beatificazione di Romero nella Chiesa cattolica, a seguito del riconoscimento del martirio in odium fidei, avviene allorché molti animi sono rasserenati, essendo ormai lontane le tensioni della guerra civile salvadoregna e del cruento scontro in America latina, fra regimi militari e guerriglie”; tuttavia, per quanto le strumentalizzazioni dell’impegno civile dell’arcivescovo si siano ridotte, in tutto il mondo Romero riceve “onori imparzialmente decretati. A lui sono dedicati monumenti, piazze, università, aeroporti, ospedali. Lo rievocano libri, film e opere teatrali”.
Si può osservare che non è un caso che la beatificazione di Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso in “odium fidei” per il suo impegno nella denuncia delle disuguaglianze sociali nell’America Latina e delle violenze della dittatura del suo Paese ai danni della popolazione civile, avvenga sotto il pontificato di Francesco. Per liberare la popolazione affidata al suo magistero occorreva trasformare il male in bene; un cammino che implicava un impegno politico, oltre che spirituale, secondo i principi elaborati dalla teologia della liberazione.
Questa forma di riflessione teologica era iniziata nel 1968 in America latina, con la riunione del Consiglio episcopale latinoamericano di Medellín in Colombia, dopo il Concilio vaticano II. Molti padri conciliari latinoamericani hanno sottoscritto il “Patto delle catacombe”, fondato sul riconoscimento che l’emancipazione politica e sociale dei popoli è propria del messaggio cristiano. Tra i protagonisti che hanno dato origine a questa corrente di pensiero pastorale vi erano i sacerdoti Gustavo Gutiérrez, Hélder Câmara, Leonardo Boff e Camilo Torres Restrepo. L’espressione “teologia della liberazione” è stata coniata nel 1973 dallo stesso Gutiérrez, con la pubblicazione del libro “Historia, Política y Salvación de una Teología de Liberación”.
I contenuti della teologia della liberazione sono stati trovati, per ragioni extrapastorali, in contrasto con il Magistero della Chiesa cattolica, portando all’adozione di misure disciplinari contro alcuni dei suoi esponenti; e poiché l’azione di Romero era stata accolta dai teologi della liberazione come l'”incarnazione di detta teologia”, sebbene l’arcivescovo non avesse mai manifestato una sua piena condivisione, era tenuto sotto osservazione da parte delle autorità ecclesiastiche. Ciò non ostante, il suo impegno civile ha continuato a caratterizzare tutta la sua vita di sacerdote.
Appena eletto arcivescovo alcuni fatti di sangue hanno colpito Romero da vicino; dopo l’assassinio di due suoi sacerdoti, egli si è impegnato per dare vita ad una Commissione permanente per la difesa dei diritti umani, divenendo un riferimento ascoltato e amato dalla gente. A quel tempo, nel cattolicesimo, i progressisti sottolineavano il “peccato sociale”, mentre i conservatori sottolineavano quello “individuale”. “Secondo Romero – afferma Morozzo – il male investiva sia la persona sia la società. Esistevano strutture ingiuste perché c’era il peccato dei singoli. Il peccato aveva radici individuali, ma era anche diffuso nella società. Romero invitava alla conversione innanzitutto le persone […] Romero riconosceva che il male era capace di materializzarsi nella storia, era percepibile nelle società al di là dei singoli individui. Ma lo si doveva combattere anzitutto con un esame di coscienza personale”.
L’esame, però, secondo l’arcivescovo di San salvador, senza trascendenza, non sarebbe stato credibile; ciononostante, Romero è stato accusato, alla vigilia del suo martirio, con un documento firmato da alcuni vescovi e inviato a Roma, di incitare con la sua pratica pastorale «alla lotta di classe e alla rivoluzione». Sebbene Romero sia sempre stato oggetto di cattive informazioni, trasmesse in Vaticano dai sui nemici con l’intento di sceditarlo, egli tuttavia non ha mai rinunciato al suo impegno per la difesa dei diritti umani; il Salvador, negli anni Settanta, era retto da un regime militare che negava giustizia sociale e democrazia, tanto da provocare un succedersi di reazioni di protesta, sfociate negli anni successivi alla morte dell’arcivescovo in guerra civile.
Al regime dispotico Romero ha indirizzato le proprie critiche, che hanno portato alla sua morte per mano dei sicari al soldo dei gruppi reazionari al potere. Come si è detto, con la sua beatificazione la Chiesa cattolica riconosce il suo martirio “in odium fidei”; ma la beatificazione giunge in ritardo, quando già la glorificazione di Romero come “martire del popolo” ne aveva imprigionato la figura nella gabbia degli scontri ideologici della sua epoca.
A parere di Marozzo, il silenzio calato sulla sua statura morale, sarebbe stato l’uso improprio della qualifica di eroe, che ne avrebbe travisato i sentimenti di martire autentico, accentuando le “motivazioni di carattere” rispetto alle “motivazioni dello spirito”. Pur dotato di queste ultime, Romero non ha mai abdicato alle prime, non avendo in nessun momento rinunciato ad ascoltare la propria coscienza, per dare dignità agli oppressi. La Chiesa – si sa – quale organizzazione monocratica ed autocratica, tende a celebrare la morte dei propri adepti impegnati nel campo sociale nei termini esclusivi della propria teologia, così come le organizzazioni monocratiche ed autocratiche laiche celebrano la morte eroica dei propri militanti in funzione della salvaguardia e della conservazione dell’ideologia sulla quale si reggono, nella più assoluta ignoranza del carattere e dei sentimenti umani dei propri martiri.
Però, al di là delle esaltazioni e delle avversioni delle quali è stato oggetto, Romero, come tutti i martiri civili, è stato un uomo che ha posposto la salvaguardia del valore della propria vita terrena, alla testimonianza del suo “credo”, attraverso l’impegno per i deboli; è per questo che, oltre ad essere beatificato, egli merita anche di entrare a fare parte dell’ideale pantheon civile dei martiri che, non nel proprio interesse, o nell’interesse di un singolo individuo o di un singolo gruppo, hanno dato la vita per la difesa della dignità dell’intera umanità, liberata dall’ingiustizia e dal bisogno.
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto sardo il 1 giugno 2015