di Sergio Caserta
La partecipazione al voto è un diritto-dovere, così recita la nostra Costituzione, all’articolo 48 secondo capoverso: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. L’interdizione dal voto è stabilita sempre dallo stesso articolo all’ultimo capoverso: “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge”.
C’era un tempo, nemmeno molto tempo fa, quando le elezioni rappresentavano un evento di rilevanza sociale oltre che politica. Le giornate dedicate al voto erano un momento in cui i partiti si guardavano allo specchio ponendo le loro strategie al giudizio degli elettori. Naturalmente c’erano già le previsioni e i sondaggi ma l’incertezza, l’attesa, la tensione, perfino la drammaticità della verifica dei risultati erano un dato essenziale del vissuto politico.
Ai seggi si ritrovava la popolazione in una gran fiera di partecipazione, chi come me faceva il rappresentante di lista, si rendeva conto in quel giorno della gran quantità e varietà umana di persone che venivano a votare. Abitanti del quartiere che non si conoscevano, famiglie, gruppi di giovani, prelati, ammalati accompagnati, un’umanità molto più ampia di quella pur numerosa che si frequentava solitamente.
Era l’occasione per incontrare persone conosciute con cui scambiarsi un cenno di saluto e di consenso, ascoltare delle lamentele o critiche all’attività del partito per questa o quella scelta, oppure per confermare manifestazioni di adesione convinta,di fede politica, di appartenenza. Il partito politico era uno spaccato di società, non tutta, ma ne era un’espressione sostanziale, questo valeva per i comunisti come per i democristiani, socialisti, repubblicani, radicali, fino alle estreme propaggini rappresentate a destra dai missini nostalgici fascisti e dai monarchici così come dagli esponenti dei partiti-movimenti dell’estrema sinistra.
Il diritto-dovere di voto era interpretato come un elemento costitutivo della cittadinanza, anche di chi non si occupava attivamente di politica ma era cittadino. Chi non poteva votare perché colpito da sentenza penale grave, viveva quest’esclusione con vergogna. Il partito politico era un pezzo di società organizzata, uno strumento che sulle grandi come nelle piccole questioni si faceva interprete del punto di vista e dell’interesse di chi lo votava.
Ora purtroppo tutto ciò praticamente non esiste più, perché i partiti sono macchine organizzative senza un corpo reale. Si fondano per lo più sul consenso dei propri leader, sulle reti d’informazione che veicolano le loro opinioni ( se ne hanno) costruite fuori da ogni confronto reale. Tutto è filtrato attraverso i media che contribuiscono in misura determinante a formare l’opinione della parte sempre più ridotta di popolazione che è interessata alla politica e che va alla fine a votare.
In questo senso le ultime elezioni regionali, non rappresentano altro che una ormai scontata ripetizione di un sistema di espressione del consenso o del dissenso che non ha alcun significato reale per più della metà della popolazione che non esprime più il diritto dovere di voto. Il dato macroscopico dell’astensione,supera in ogni elezione il precedente. In Emilia Romagna nelle elezioni regionali anticipate di ottobre 2014 si è toccata una vetta iperbolica, oltre il 60% di astensione, ma questo dato diviene pressoché generalizzato in queste ultime in tutt’Italia, dove vota ormai meno del 50%.
Ciò non ha alcuna rilevanza nel dibattito politico tra i partiti ai quali l’unico elemento d’interesse sono i risultati comunque raggiunti. Cosa dicono i “soloni” di Renzi: “5 a 2 questo conta abbiamo vinto”. La vittoria di Pirro, quella che prepara la prossima sicura disfatta. Se ci capita di passare una giornata in un ospedale, o in un ufficio postale, o frequentemente su un mezzo pubblico, o in una stazione ferroviaria, o in una sede della Caritas, o davanti agli uffici per il lavoro, ai mercati rionali, oppure se solo ci soffermassimo a guardare con più attenzione i passanti per strada, possiamo renderci conto della gran quantità di umanità che vive la sofferenza sociale estraniante della povertà, la solitudine della malattia o semplicemente della vecchiaia.
Se parlassimo con giovani o meno giovani senza lavoro, o che fanno lavori precari e malpagati, se ascoltassimo quelli che non ce la fanno pur portando un magro stipendio e sono preoccupati per il futuro dei figli e dei nipoti, se ci preoccupassimo di capire l’ampiezza di questa realtà, scopriremmo le ragioni di tanti che rinunciano anche alla speranza di cambiare, ciò che il voto alla fine esprime.
È questo che vuole il potere del pensiero unico: l’auto esclusione e la rinuncia; da una parte chi ce la fa, chi sta comunque bene o ritiene di starci con la sua indifferenza e dall’altro chi non ha i mezzi economici, psichici e morali per stare dentro la “gara”. Due società separate di netto, senza mediazioni, un sistema in cui l’ascensore sociale si prende quasi esclusivamente per scendere al livello più basso, dove alla fine sei semplicemente fuori.
Penso che al di là di ogni strategia e tattica politica, se una sinistra non sta in mezzo a quella parte di società oggi esclusa che è la maggioranza, non ha alcun senso e prospettiva. Plaudiamo tanto ai successi di Syriza e di Podemos ma questi movimenti hanno costruito forti legami con il tessuto sociale, attraverso le reti di circoli, di mutua assistenza di volontariato, in Italia questo non succede e la politica è esclusivamente quella che si vede in televisione. In questo senso le rilevazioni degli istituti specializzati sui flussi elettorali, evidenziano che dall’astensione è penalizzata soprattutto la sinistra, quel po che ne è rimasta: come potrebbe essere altrimenti?