di Antonia Battaglia
La Commissione Petizioni del Parlamento Europeo ha invitato pochi giorni fa Peacelink a presentare, per la seconda volta, un aggiornamento alla petizione sugli effetti della diossina prodotta dall’Ilva. Un incontro importante, che ha dato modo alle Istituzioni Europee di rendersi conto di come evolva la situazione a Taranto.
Sono passati ormai due anni da quando Peacelink ha cominciato la sua battaglia in Europa per cercare giustizia per Taranto, cosa che non si riesce ancora ad ottenere in Italia. E in questi due anni sono stati compiuti passi molto importanti: l’azione continua di lobbying ha portato la Commissione Europea a lanciare una procedura d’infrazione e un parere motivato, che potrebbe, secondo la Commissione stessa, approdare alla Corte di Giustizia. Commissione contro Italia, a difesa di quei principi e di quei diritti che in casa sembrano essere invisibili e inesistenti.
La discussione, avvenuta in seguito all’esposizione di Peacelink, ha messo in luce ancora una volta un aspetto sconcertante: la persistente refrattarietà a prendere coscienza, da parte dei partiti di governo, dell’urgenza di attuare un piano ambientale serio e risolutivo.
Si è continuato, anche in questa occasione, davanti ad un Parlamento e ad una Commissione europei compatti nel dire che Taranto non può sopportare oltre la politica di taglio prettamente industriale del Governo, a negare la realtà delle cose. Si è continuato a dire che la situazione non è per niente grave, che il Governo ha già da tempo messo in atto delle azioni per la riduzione dell’impatto ambientale, che la situazione non è assolutamente quella di morte e malattia descritte nell’intervento di Peacelink e che infine il problema Ilva è talmente vasto che, si sa, si deve capire, i tempi sono lunghi.
Una sfilza di dichiarazioni improntate al luogo comune, alla malafede, alla negazione di una verità drammatica e desolante.
Non si possono negare i dati sanitari, scritti nero su bianco. Non si possono negare le notifiche di violazione dell’Ispra, che certificano ancora che, a parte le emissioni in aria, anche la situazione degli scarichi a mare e nella falda è grave. Non si possono negare le immagini che le eco-sentinelle riprendono quotidianamente: coltri di fumo spesso, strisce nere di polveri di ogni tipo che opprimono la città e che con ogni probabilità genereranno nuovi casi di malattie mentre il tempo passa e la situazione rimane invariata.
I dati quotidiani sull’inquinamento, realizzati da Peacelink attraverso l’uso della stessa strumentazione in dotazione ad Arpa, rimangono allarmanti, nonostante il fatto che sia già fermo l’Altoforno 5, garante del 50% della produzione dello stabilimento. Poiché gli altri impianti continuano a inquinare; il camino della diossina, E 312, è ancora lì, a sputare veleno.
L’allentamento delle prescrizioni ambientali, operata dall’ultima legge pro-Ilva, è una vera pietra tombale per una città in grave sofferenza, e viene salutata, dai partiti di governo, come via d’uscita mirabolante da una questione annosa e complicata.
Si rimane allibiti ad ascoltare che il problema Ilva non può essere risolto dal Governo italiano perché è un problema troppo vasto, e che quindi c’è un patto tacito per fare quel poco che è necessario per evitare una condanna in Corte di Giustizia e per convincere possibili ipotetici acquirenti della solidità economico-tecnica e ambientale dello stabilimento.
Una messa in scena che ormai fa acqua da tutte le parti. Non solo passibile di nuove indagini da parte della Magistratura, ma semplicemente indifendibile anche sotto l’aspetto economico, se si pensi che l’azienda è in forte perdita gestionale ed ha un buco di almeno tre miliardi di euro ancora da sanare.
Sarebbero necessari circa 1.8 miliardi di euro per realizzare le bonifiche. Quanto occorrerebbe se si decidesse di realizzare un impianto completamente nuovo, visto che quello attuale è in perdita ed è troppo obsoleto per garantire il rispetto della vita e dell’ambiente, oltre che della stessa produzione?
A questa domanda, le forze politiche rispondono che non è possibile parlare di un programma di rinnovamento di questa portata «perché l’Ilva è troppo grande, non esiste un altro stabilimento del genere in tutta Europa» e quindi niet, si va avanti così, visto che l’interesse nazionale prevale su quello di una comunità più piccola e che non è possibile privare il Paese del suo acciaio.
Il nodo principale da risolvere è sempre e banalmente uno. Si può produrre acciaio uccidendo le persone e devastando l’ambiente? L’Ilva può essere ristrutturata, messa a nuovo, totalmente modificata senza prima aver dissepolto le tonnellate di rifiuti che probabilmente sono nascosti, senza aver prima bonificato aria, terra, mare, persone ? C’è la volontà politica e la giusta determinazione, oltre che i fondi, per fare questa operazione ?
Per come è la situazione politica ed economica nazionale e soprattutto non mutando in positivo la gestione dello stabilimento e dell’impatto sulla città, in tutti i suoi vari aspetti, appare più che evidente che la soluzione non possa che essere una: la sostituzione dell’attività siderurgica con attività compatibili con la vita umana. Un nuovo modello di sviluppo che prenda vita da un programma, basato su assets già presenti nella realtà locale quali strutture portuali, competenze nel campo della meccanica, della ricerca, dell’aereospaziale, dell’elettronica, dell’informatica, delle energie rinnovabili, del turismo e delle attività marinare e agroalimentari.
Diventa sempre più urgente un cambiamento profondo di strategia da parte della politica, che ponga fine all’agonia dello stabilimento e che rilanci lo sviluppo economico della città in settori a più elevata potenzialità di crescita e di sostenibilità.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 9 maggio 2015