di Sergio Sinigaglia
Sul 1° maggio a Milano se ne sono dette e se ne stanno dicendo, inevitabilmente, tante. Non è la prima volta che una manifestazione importante e partecipata viene oscurata per la volontà di poche decine di prendersi la platea mediatica, nascondendo il lavoro sociale di una intera rete, vaneggiando, senza senso del ridicolo, su “Baltimora” e rivolte sociali vere, le quali non hanno a nulla a che fare con l’esposizione muscolare di pochi specialisti dello scontro.
È accaduto il 15 ottobre del 2011 a Roma e purtroppo si potrebbe ripetere in futuro. Anche perché è una questione a cui non è semplice dare una risposta efficace. Chi sollecita servizi d’ordine o controlli vari rischia di proporre soluzioni peggiori del problema. Forse ha ragione quel mio amico che, commentando il tutto, rilevava che i casseurs ci saranno sempre e sottolineava la necessità di riflettere sul rapporto tra chi manifestava, diverse miglia di persone, e il contesto.
Oggi la retorica dei bravi cittadini che il giorno dopo si sono messi a ripulire la città devastata dai vandali è sulle prime pagine dei giornali, così come le relative immagini sommergono i telegiornali. Una retorica insopportabile e plastificata. È sin troppo facile rilevare che le nostre città sono da anni devastate dalla cementificazione, dalla dittatura dei suv e del traffico, dalla speculazione edilizia e da tutto ciò che le ha rese invivibili e sempre più estranee a chi ci abita, una devastazione sociale spesso ignorata o distorta dai mass media.
Però è indubbio che le immagini delle tute nere che spaccano e bruciano sono inaccettabili e creano guasti incalcolabili dal punto di vista politico, del consenso, nei confronti di chi si oppone al sistema neoliberista. Dunque la questione centrale è appunto il rapporto tra “noi”, le pratiche di movimento, di socialità e il resto della popolazione. Nei giorni scorsi è stato giustamente dato risalto alle contestazioni che hanno accolto Salvini nelle Marche, un’accoglienza simile a quella incontrata in altre parti d’Italia.
Purtroppo c’è l’altra faccia della medaglia, cioè l’indubbio consenso di una parte non indifferente dell’opinione pubblica nei confronti del leader della Lega. Segnale di quanto il mutamento antropologico di questi decenni abbia inciso in questo Paese, nel suo incattivimento, nel far prevalere umori e atteggiamenti beceri verificabili quotidianamente. Umori che fatti come quelli di Milano alimentano inevitabilmente. Come se ne esce? Come si può ricostruire un percorso in cui il legame sociale, la conflittualità partecipata, la solidarietà possano essere un comune denominatore in una situazione generale estremamente difficile, dove il protagonismo dei movimenti di non molto tempo fa ha lasciato il posto a dinamiche di pura resistenza, che rimangono tali?
Nelle ultime settimane il confronto e l’attenzione a sinistra di sono concentrati sulla proposta di “coalizione sociale”. Il termine è suggestivo, il soggetto da cui viene è sicuramente autorevole. La prima sensazione è che si chiuda la classica stalla quando i buoi sono scappati. Il governo Monti-Napolitano di qualche anno fa ha prodotto danni sociali enormi, eppure allora l’opposizione a quella barbarie fu lasciata a pochi soggetti. Tutti contenti di essersi liberati del Berlusca senza accorgersi che stavamo passando dalla padella alla brace. E che la cosiddetta crisi era un pretesto per far compiere alla “shock economy” un salto di qualità senza precedenti.
Ma veniamo all’oggi. Dunque coalizione sociale? Di chi e per che cosa? Può essere una coalizione sociale l’aggregazione di alcune sigle importanti e autorevoli, la maggior parte impegnate in alcuni ambiti sicuramente rilevanti ma ben delimitati? Può essere sociale una coalizione che non si pone la questione della ricomposizione di un fronte che riparta dai territori devastati dalla crisi e dalla precarietà? Oggi sono grosso modo tre le principali dinamiche di conflitto che, seppur tra mille difficoltà, caratterizzano i luoghi dove viviamo: le vertenze che cercano di opporsi alle tante chiusure di fabbriche spazzate via dalle ristrutturazioni confindustriali e delle multinazionali; l’occupazioni di case e dei tanti luoghi abbandonati; le battaglie ambientaliste contro le grandi e piccole opere devastanti.
A questo si aggiunge l’attuale mobilitazione contro l’ennesima “riforma” della scuola, emblematica della cultura autoritaria e aziendalista dominante. Se non si tenta di mettere in relazione queste conflittualità tra loro non si capisce cosa significhi “coalizione sociale”. Quante fabbriche in disarmo in questi mesi sono state occupate per farle diventare punto di riferimento dell’intero territorio? Quante occupazione di case sono diventate l’occasione per costruire relazione e solidarietà sociali tra chi subisce l’attacco al posto di lavoro e chi è costretto ad occupare uno stabile perché perdendo il salario ha perso anche la casa, o perché profugo in fuga da guerre e carestie deve fare i conti con politiche discriminatorie e fascistoidi?
Se non ci poniamo in questa ottica, se non riusciamo a superare questa separatezza, non avrà senso parlare di “coalizione sociale”. Da parte dei soggetti di movimento organizzati è necessario uno sforzo che metta da parte incomprensioni, personalismi o divergenze per sposare una logica di “servizio” che permetta di ricostruire dal basso pratiche di democrazie e autonomia sociale.