di Marina Montuori
Rosamaria Vitale mi riceve nel salottino di casa sua per parlare del libro Accogliere il migrante. Tecniche di psicologia transculturale in situazioni di emergenza (Edizioni Psiconline), che ha scritto a quattro mani con Rosalba Terranova Cecchini della Fondazione Cecchini Pace. È un testo tecnico, ma anche coinvolgente, che si fonda su esperienze molto forti di vita vissuta nei centri di prima accoglienza di Milano, nella concitata fase dell’Emergenza Nord-Africa.
Vitale, che è anche una collaboratrice del Corriere delle migrazioni, è medico e psicoterapeuta e da molti anni lavora come volontaria in Africa e tra i migranti in Italia. Ha partecipato a Mare Nostrum portandosi dietro, tra i ricordi, anche una serie di problemi alla schiena: «Mi calavano sulle barche con un’imbracatura per verificare se le persone erano vive o morte, poi mi issavano di nuovo su, non ho più l’età per fare certe cose». Nella stanza accanto sta riposando un giovane rifugiato siriano che ha rischiato di morire assiderato ed è considerato un soggetto vulnerabile. Vitale lo ospiterà per un po’.
In che tipo di situazioni interveniva?
Trattandosi dei tempi dell’Emergenza Nord-Africa, entravamo in rapporto con un notevole flusso di persone. Molto spesso, i tempi di preavviso rispetto all’arrivo dei migranti nei centri erano davvero brevi. In più, nei bandi di affidamento della Prefettura era richiesto ai gestori di prevedere l’intervento di uno psicologo, ma senza specificare altro. Erano necessari strumenti e tecniche che permettessero un lavoro efficace nel minor tempo possibile. Ci organizzavamo con diversi step successivi.
Li può descrivere?
Al momento dell’ingresso nella struttura i richiedenti asilo erano riuniti in gruppi, di solito già formatisi spontaneamente durante le loro varie vicissitudini. Incontravano, quindi, lo psicologo di riferimento e il mediatore culturale, così da creare una relazione di fiducia. Seguivano poi i colloqui individuali dove, attraverso la “scheda culturale”, si cercava di ricostruire un profilo della loro identità etnico-culturale e dei processi mentali transculturali, cioè la capacità di aprirsi a culture diverse dalla propria.
In cosa consiste la scheda culturale?
È un documento che onsidera diversi fattori: la scelta del nome proprio da parte della famiglia, ad esempio; la composizione familiare; se vi sono parenti che vivono già in Europa; se il soggetto ha già viaggiato in precedenza, e altro. Le risposte vengono poi categorizzate in “tradizionali” o “modernizzate”. Naturalmente, più sono numerose le prime meno ci saranno possibilità di un’integrazione che possa realmente funzionare. Il processo transculturale è legato alla mobilità dell’individuo che emerge dai suoi racconti. Facciamo anche riferimento a quanto ipotizzato da Sow, uno psichiatra senegalese.
Ce ne parli.
Sow considerava la costituzione dell’Io culturale in un rapporto dialettico tra il “dentro” e il “fuori”, tra il soggetto e i simboli culturali costituiti in una struttura antropologica precisa, in cui il soggetto viene inserito fin dalla nascita. Dunque facciamo molto riferimento alla storia culturale della persona e prestiamo molta attenzione ai simboli cui fa riferimento, anche quelli religiosi.
Cosa avviene successivamente alla somministrazione della scheda?
Il programma prevede di accompagnare il migrante nel percorso all’interno del centro, anche per favorire un migliore inquadramento nelle regole sociali. In ogni caso, ci muoviamo intorno ad una sorta di “carta d’identità culturale” che permette di diversificare il lavoro a seconda delle caratteristiche della persona e di migliorare la relazione con il terapeuta. Utilizzo molto anche gli incontri di gruppo con individui della stessa etnia.
Su cosa bisognerebbe incentrarsi, secondo lei, dunque, nell’accoglienza dei migranti?
L’impostazione culturale serve a favorire un inserimento calibrato sulla persona. La carta d’identità culturale individua le caratteristiche e le competenze: indica chi sei, cosa vuoi e come è possibile aiutarti. L’importante è non soffocarli di parole e sopraffarli con atteggiamenti protettivi. Un simile atteggiamento non è indice di una vera apertura verso l’Altro, altrimenti si lascerebbe la libertà di poter fare da solo. È come un continuo confronto di culture che deve trovare una mediazione e questo avviene solo con il tempo e con la pazienza.
Pare quasi che, pensando all’accoglienza, si oscilli sempre tra due poli estremi e forse ugualmente fuorvianti: la speculazione economica o l’assistenzialismo.
Certo. Essere disponibili vuol dire avere un cuore, ma bisogna stare attenti. È necessario avere rispetto della persona e delle sue esigenze primarie, ma anche mettere in pratica competenze che permettano una buona gestione della relazione, che aiutino l’emancipazione. Ricostruire l’identità culturale del migrante significa avere un approccio più individualizzato.
Ciò permette, penso, anche di individuare eventuali casi di psicopatologia. Le è capitato di incontrarne?
Sì. Dei 15 casi descritti nel libro, cinque presentavano specifiche patologie. Ma anche lì bisogna stare attenti, perché fenomeni che qui sarebbero considerati deliranti sono a volte convenzionalmente e socialmente accettati in altre culture. Ad esempio, parlare ad alta voce con Dio o con gli spiriti può non essere un delirio ma semplicemente una preghiera.
Quali sono gli elementi che bisognerebbe modificare nell’attuale sistema di accoglienza?
Innanzitutto ci si scontra con la questione della corruzione a livello politico. Basti pensare ai recenti fatti di cronaca. Direi che dipende da che significato si vuole dare alla parola “accoglienza”: se si pensa semplicemente a fornire vitto e alloggio o se si mira a una reale integrazione. L’approccio basato sull’identità culturale del migrante, con una particolare attenzione agli aspetti psicologici, dovrebbe essere il cuore del sistema di accoglienza. Gli operatori, poi, dovrebbero essere selezionati in base alle loro competenze. Infine, se proprio deve esserci l’affidamento dei centri di accoglienza ai privati, che si scelgano le persone giuste. Che siano umani, semplicemente.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere delle migrazioni il 16 marzo 2015