Niente per noi, tutto per tutti: dissipare le zone d'ombra della democrazia

13 Marzo 2015 /

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Il palcoscenico vuoto della politica
Il palcoscenico vuoto della politica
di Sandra Bonsanti
Fino ad ora, ognuno andava per la sua strada. Una sintonia ideale, che in certi momenti è riuscita a creare mobilitazioni importanti e risolutive, che il giorno dopo però rischiavano di lasciare ciascuna associazione sola come prima. Ognuno con lo spazio che pensava di dover presidiare, largo o stretto, e comunque di per sé decisivo nel difficile compito di attuare la Costituzione. “Ma,oggi, quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa la democrazia, il compito si allarga e diventa più impegnativo…” ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo documento di analisi sulla democrazia e sul “compito” che spetta adesso a Libertà e Giustizia.
Ed è stato proprio attorno a quell’ombra che sentiamo stendersi su di noi, pesante, minacciosa quanto basta ad allarmare chi si preoccupa ancora della politica nei giorni del pensiero unico, che si è concentrata l’attenzione della due giorni di Libertà e Giustizia a Firenze. Studiata e organizzata con la passione che lo caratterizza da Paul Ginsborg e tanto partecipata da dover constatare con un certo rammarico che molti non sono potuti entrare negli spazi pur grandi che avevamo a disposizione. Non solo gufi e professoroni, ma tantissimi ragazzi, molti cittadini mossi da un desiderio profondo di voler riflettere, di riconquistare a se stessi la libertà di ragionare e decidere.
In quella sede Zagrebelsky è dunque andato oltre la sua analisi del presente e delle azioni del governo Renzi, rivendicando il ruolo di “Cassandre impenitenti”, che denunciano coloro che dicono di esser dalla parte della democrazia, ma sostengono che non c’è nulla “per cui non stare tranquilli”: a costoro il messaggio diZagrebelsky è molto esplicito: “A questi si può dire ch’essi non vogliono vedere la semplice realtà che a noi pare evidente per se stessa”.

Non vogliono vedere, non vogliono sapere perché se vedessero dovrebbero ricredersi e, ad esempio, dire con noi che “la prima condizione per salvare la democrazia” è abbandonare un insieme di riforme giustificate dalla “governabilità” ma che consistono in “un rafforzamento della presa sul potere”, in “blindature” che aggravano la situazione. “Noi sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e mano chiusure ai bisogni sociali…Altro che rami alti: bisogna lavorare per rinforzare le radici”.
E’ solo un caso che nelle stesse ore del nostro convegno si celebrasse a Firenze un incontro diverso, organizzato dalla Fondazione Eunomia, che era stato pubblicizzato con il titolo: “Il ministro Boschi sale in Cattedra” e spiega a una quarantina di amministratori locali le riforme, non da sola ma sostenuta dal costituzionalista Barbera e dal politologo Roberto D’Alimonte, che rispondendo alla tesi di Zagrebelsky ha detto che il modello renziano è un modello diverso di democrazia: “chi vince decide… mentre loro sono legati al modello del ’48, la democrazia consensuale”.
Ma dove andiamo e cosa ci attende se seriamente cerchiamo di fare ciò che ci incoraggia a fare Gustavo Zagrebelsky e che nel seminario di Firenze abbiamo cercato di approfondire con Donatella Della Porta, storica studiosa della democrazia e dei movimenti della società civile? Si tratta, sostiene Della Porta, di insistere a costruire dei ponti anche quando ci sembra di non farcela più. Ponti che non devono occupare lo spazio delle forze che si stanno disgregando. Come in Spagna e come in Grecia, arriva un momento in cui i cittadini pensano e dicono di non poterne più. E’ allora che serve aver costruito qualcosa. Il difficile o addirittura impossibile è prevedere quando sarà quel momento di non ritorno. A quel punto, forse, serviranno identità nuove.
La via che ci indicano oggi Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, don Luigi Ciotti e Maurizio Landini (cito solo alcuni dei sostenitori di questa impresa) è quella della costruzione di uno spazio per le tante associazioni che sul territorio lavorano in difesa dei diritti previsti dalla Costituzione: il lavoro, la scuola, la salute, l’ambiente, la giustizia e la legalità…E’ stata chiamata una coalizione sociale: mi piace definirla così. Non è del tutto nuova per noi di LeG che creammo conla Fiom e don Ciotti quella manifestazione di Piazza del Popolo, “La Via Maestra” che tutti ricordiamo. Allora, concludendo, Zagrebelsky disse dal palco “Non ci faremo asfaltare”. Dunque, manteniamo la promessa.
Lavoriamo a tenere insieme le associazioni che sul territorio si impegnano giorno dopo giorno per i diritti di ognuno. Non è facilissimo, ma possiamo provare a creare insieme mobilitazioni concrete su problemi concreti. Un grande ponte che ci tenga tutti insieme e che un giorno potrà essere utile a traghettarci verso una terra meno avara di democrazia, un Paese dove le Costituzioni si aggiornino ma non si stravolgano, un Paese che non neghi la rappresentanza ai lavoratori e ai cittadini che vanno a votare. Un Paese in cui i partiti non siano i soli a far politica, ma quando la fanno si impegnino a farla “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
È strano lavorare con questo obiettivo? È escludere forse qualcuno? Chi finge di non capire la portata e la delicatezza di questo lavoro si avvicina pericolosamente a coloro che non vogliono vedere. La nostra primavera non chiede “niente per sé ma tutto per tutti”, come ci ha insegnato Zagrebelsky.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Libertà e Giustizia il 6 marzo 2015

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