di Loris Campetti
La morte e il dolore si possono prescrivere per scadenza termini. Così ha deciso la Cassazione, sulla base del principio che qualora il diritto non sia in consonanza con la giustizia, è il primo e non la seconda che per il giudice deve prevalere. All’ombra del Palazzaccio, così, è stato commesso l’ennesimo omicidio e la nuova vittima, la giustizia, va ad aggiungersi ai tremila uomini e donne uccisi dall’amianto. Uccisi da Stephan Smidheiny, il magnate svizzero padrone dell’Eternit.
Forse l’hanno chiamato Eternit proprio perché procura la pace eterna a chi lo lavora, a chi lo tocca lavando vestiti impregnati di fibre velenose, a chi lo respira. Ma siccome dal 1986 in Italia gli stabilimenti – i campi di sterminio – dell’Eternit sono chiusi, gli omicidi di Smidheiny non sono più giudicabili e dunque i processi di primo e secondo grado e il lavoro straordinario del magistrato Raffaele Guariniello sono cancellati. Pazienza se l’amianto uccide ancora, con l’arma del mesotelioma pleurico, più di ieri e meno di domani. Uccide nel tempo, con anni di ritardo rispetto al momento dell’esposizione alle sue fibre. Pazienza se il picco degli omicidi si prevede addirittura nel 2025. Pazienza se tutti, proprio tutti anche dentro il Palazzaccio, ammettono che Smidheiny è responsabile di quegli omicidi perché conosceva le conseguenze dell’amianto sulla salute delle persone.
Reato prescritto. I parenti delle vittime che da decenni conducono la loro battaglia perché la verità sulla strage che ben conoscono venga riconosciuta e formalizzata e pretendono giustizia, se ne facciano una ragione: reato prescritto. Tanto, anche se non se faranno una ragione, molti di loro cesseranno di soffrire e incazzarsi, ammazzati anch’essi dal mesotelioma. Scriveva Stefano Benni in una delle sue prime poesie: “Chiedete giustizia, sarete giustiziati”.
Li conosco uno per uno, gli uomini e le donne ancora vivi di Casale Monferrato che non si sono mai piegati e ancora oggi non si piegano al primato del presunto diritto sulla giustizia. Quando ieri mattina, prima dell’udienza conclusiva della Cassazione, ho visto tra i tanti uno striscione che recitava “L’unica giustizia è quella proletaria” ho avuto un moto di fastidio. Ieri sera, dopo la sentenza, i miei sentimenti verso quel polveroso slogan erano mutati.
Forse un merito la inaccettabile, offensiva, umiliante sentenza sull’Eternit, ce l’ha. Fa chiarezza su un’illusione collettiva che per vent’anni ha avvelenato i nostri cervelli: l’idea che la crisi della politica, il crollo della sua credibilità, possano essere compensati dal protagonismo di una magistratura vissuta come neutrale, dunque giusta, se non addirittura schierata dalla parte delle vittime e non dei carnefici. La magistratura come un nuovo faro per gli oppressi nel suo ruolo di supplenza alla politica degradata.
Che follia, nel paese delle stragi di stato senza colpevoli. La legislazione è figlia del conflitto politico e sociale, le conquiste civili sono frutto di lotte e non sono irreversibili ma destinate a mutare con il mutare della stagione, politica e sociale. Solo la pressione civile e sociale può consentire di muoversi tra le pieghe delle leggi esistenti e di garantirne un’interpretazione democratica da parte dei magistrati. Se la sinistra non c’è più, è insensato convincersi che la nuova sinistra possa essere la magistratura. Se la stella della politica si è inabissata, e come si è inabissata, è insensato pensare di sostituire la sua perduta luce con quella effimera di una candela votiva.
Non ci sarà salvezza per il nostro paese finché il dolore e la rabbia dei parenti delle vittime dell’amianto non diventeranno il suo dolore e la sua rabbia.