di Amina Crisma
La clamorosa performance a Pechino di Mark Zuckerberg, che il 22 ottobre all’Università Tsinghua ha sostenuto in cinese un dibattito di circa mezz’ora, è alla ribalta sulla rete e sui media internazionali, e il video dell’evento si è rapidamente conquistato una audience planetaria.
Certo, non è stato propriamente fluent l’eloquio del fondatore di Facebook (come svariati commenti sarcastici negli USA e in Francia si sono puntualmente incaricati di rimarcare, e come d’altronde egli stesso apertamente ammetteva, dichiarandosi ben lontano da una padronanza effettiva), ma era comunque di un livello sufficiente per interagire con i suoi interlocutori, e soprattutto per accattivarsene la simpatia.
L’arduo tentativo di esprimersi nella loro lingua, per quanto potesse essere imperfettamente realizzato – o fors’anche, a ben vedere, proprio per questo – non poteva non suscitare il loro cordiale apprezzamento, tanto più che la motivazione primaria che ne veniva addotta era di ordine squisitamente privato: l’esigenza di comunicare con i familiari della moglie, Priscilla Chan. Rivelando che è quest’ultima a insegnargli il cinese, Zuckerberg suggeriva al pubblico l’idea di una propria relazione con la sinità intrinseca all’ambito dei più intimi affetti, e non dettata da ragioni estrinseche e strumentali, da esigenze di mercato e di profitto.
È presto per dire se tutto ciò servirà effettivamente a sdoganare Facebook nella Repubblica Popolare Cinese (è ben noto quale cruciale partita vi si stia giocando in tema di controllo della rete e dei social network). Ma al di là di quelli che potranno essere gli sviluppi futuri, credo non sfugga a nessuno la dirompente portata simbolica di quest’episodio, che mette in scena il mutamento epocale a cui stiamo assistendo. È di questi giorni la notizia, data dalla Banca Mondiale e dal Fmi, che l’economia cinese ha superato quella statunitense, in base al calcolo condotto sul prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto (ne parla Maurizio Scarpari su il manifesto del 18 ottobre e su ww.inchiestaonline.it), e lo spettacolare evento di Pechino sembra riflettere, in modo davvero pregnante, questo passaggio di testimone.
Ma l’episodio si presta anche a riflessioni ulteriori. Lo si può leggere come una magistrale lezione comunicativa, dalla regia perfetta nella sua ostentata goffaggine, straordinariamente abile ed efficace. Zuckerberg avrà forse ancora molto da imparare nella pratica della lingua cinese, come sottolineano i suoi – a mio avviso ingenerosi – critici occidentali, ma evidentemente ha anche molti utili suggerimenti da offrire in materia di comunicazione ai suoi interlocutori cinesi, freschi apprendisti di un linguaggio da soft power che, come hanno mostrato recenti vicende di cui in quest’Osservatorio abbiamo trattato, non sembra loro propriamente familiare – ed è un linguaggio non meno arduo da apprendere, se vuol essere credibile e convincente.
Parlare il linguaggio soft non equivale ad attuare un mero maquillage superficiale di vecchie strategie di propaganda autoritaria, in un arroccamento difensivo di cui la grande potenza cinese di oggi non sembra davvero aver bisogno, ma significa accettare integralmente la sfida di un mondo aperto, dialogico, plurale, dove mettere in gioco la forza persuasiva delle parole.
Questo non sarebbe per la Cina una presunta “resa ai valori occidentali”: sarebbe invece, credo, una autentica attualizzazione dei più fertili insegnamenti dei suoi grandi maestri antichi.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito ValoreLavoro.com il 26 ottobre 2014