di Sergio Caserta
Non capita nella vita a tutti, fortunatamente, di ricevere una lettera di licenziamento. Non è piacevole, anche se di solito il tono usato dai licenziatari, è misurato e formalmente gentile come in questa lettera che ricalca una storia vera. Improvvisamente in casa cambia l’atmosfera, la persona licenziata se è il capofamiglia, si sente menomato, amputato: non avere più un lavoro, sapere che devi ricominciare la tua esistenza professionale trovando un nuovo equilibrio produce uno stato d’animo di fortissima incertezza, soprattutto se sei un lavoratore maturo; dicono giustamente che la disoccupazione giovanile è il peggior dramma di un Paese, ma non si deve dimenticare che tanti hanno perso il lavoro in questi anni, in un’età in cui ricominciare trovandone un altro è diventato molto, troppo difficile.
Si calcola che solo in provincia di Bologna, siano più di trentamila i quadri e manager che hanno perso il lavoro dall’inizio di questa drammatica crisi e che non sono stati ricollocati. In più gli uffici provinciali del lavoro sono del tutto inadeguati a gestire le professioni più qualificate per le quali non esistono nel nostro Paese norme, leggi e finanziamenti per la riconversione professionale, forse di questo ci si dovrebbe soprattutto occupare.
Comincia per il licenziato, un iter burocratico molto doloroso: innanzitutto all’Inps per ricevere l’indennità di disoccupazione, non avendo diritto alla cassa integrazione, che dura solo un anno. Ci si trova in una stanza a prendere il numero con tanti altri, molti stranieri ma non solo, che magari hanno lavorato pochi mesi in regola e altri a nero e quindi non hanno diritto all’indennità intera o non hanno per niente diritto, situazioni disperanti.
In quella sala, ti accorgi che la società produce “scarti di lavorazione” e che tu ne fai parte, che nonostante ci vai col giornale sottobraccio e con la tua preparazione, ti senti molto più simile al manovale o alla badante in attesa con te. Ti viene in mente quella straordinaria poesia di Totò “a morte sai chÈdè? È una livella….” Anche il licenziamento come la morte rende gli esseri umani più simili, nella sofferenza.
Poi si fa causa ricorso immediato mediante l’articolo 700 del cc e si vince. In poche udienze il giudice accerta che il licenziamento è illegittimo perché non sussistono prove della riduzione effettiva di personale e quindi reintegra il lavoratore che è riassunto. Urrà c’è una legge (lo Statuto dei lavoratori, la legge 300 e il suo fatidico art.18) e c’è un giudice che analizza e valuta la situazione.
Dura poco la gioia, l’azienda è pervicace fa ricorso e ottiene la revoca dell’assunzione, pur nella conferma della mancanza di motivi al licenziamento, tutto da rifare, si va alla causa ordinaria. Intanto passano i mesi, finisce l’indennità di disoccupazione e si resta senza reddito, si deve cercare un lavoro ma come? Si manda il curriculum ovunque, ma è dura, durissima paradossalmente se il lavoratore è qualificato, ci si sente rispondere “ottimo curriculum ma chissà quanto costa.” e rispondi “no guardi sono modesto” ma non se ne fa niente…
Una causa di lavoro ordinaria dura almeno tre/cinque/sei anni, anche di più. I tribunali sono affollati di processi e per quanto questa materia sia anche più rapida di altre, passano gli anni, i capelli s’imbiancano, i figli crescono, si trova un lavoro, certo a termine, una consulenza, si partecipa a un progetto, si mette su una società, si sopravvive, si sbarca il lunario, a volte molti non ce la fanno e precipitano con la solitudine nella depressione, a volte proprio non reggono e la fanno finita. Cosa passa per la mente del lavoratore disoccupato: sono un fallito, è colpa mia, altri ce la fanno, in fondo sono un incapace, ecco che gli incubi agitano i sonni e non si è più sereni.
Alla fine però finisce anche la causa e come Dio (o meglio il giudice vuole) arriva la sentenza: conferma dell’illegittimità del licenziamento, l’articolo 18 ha ripristinato la verità, non è legittimo licenziare una persona con un falso motivo, è discriminazione, punto e basta.
La sentenza ordina: reintegrare il lavoratore, pagare i danni professionali arrecati e anche quelli alla salute per un lungo periodo di discriminazione, accidenti finalmente ho avuto riconosciute le mie ragioni, giustizia è fatta, tutto bene. Tutto bene? No, perché nel frattempo l’impresa guarda caso è fallita e l’imprenditore se n’è andato con i soldi, resta da recuperare un credito, per tutti gli stipendi, gli oneri previdenziali, i risarcimenti dei danni subiti ma chissà mai se e quando arriverà?
Intanto sono passati molti anni ma ancora molti ne devono passare per l’agognata pensione perché la signora Fornero ha pensato bene di allungare di sette anni l’età pensionabile, quindi la scommessa è sopravvivere.
Quando il simpatico Renzi vuole abolire lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18, vuole semplicemente che molti di quei lavoratori che hanno resistito in attesa di veder rispettata la propria dignità, smettano subito di farlo e magari seguano più in fretta l’esempio di quegli altri che si sono tolti la vita e così hanno tolto il fastidio. Una bella prospettiva per risanare la nostra economia.
È per questo che la lotta dei lavoratori per salvare la propria dignità è di tutti e non di pochi.
Questo articolo è stato pubblicato sul FattoQuotidiano.it il 7 ottobre 2014