di Michele Fumagallo
Ogni occasione è buona per ritornare sulla nostra storia, intendo la storia del Manifesto. Ma quella di Aldo Natoli non è stata storia di poco conto nella vita tormentata del Manifesto a dispetto della fuoriuscita dal gruppo e dal giornale già pochi anni dopo la sua fondazione. Aldo Natoli è stato un uomo della Resistenza romana, un dirigente del Partito Comunista ai più alti livelli, un conduttore di battaglie memorabili (la speculazione edilizia romana in anni decisivi del progresso italiano), un eretico fondatore di un gruppo di comunismo radicale qual’era quello del Manifesto delle origini, uno studioso attento di Gramsci.
Ricordarlo ora, in un periodo in cui la sinistra di classe deve reinventarsi un futuro innanzitutto nella società, ha più senso che mai. E che peccato che tutti quelli che hanno attraversato la storia del Manifesto, questo curioso e libero pezzo di movimento comunista, tendano a smarrire ogni barlume di memoria del passato, come se fosse possibile costruire un futuro degno senza il concime del passato.
Come per Luigi Pintor, in un precedente post, annoto che la storia complessiva di Aldo Natoli va fatta in altro articolo, limitandomi a ricordare qui i lucidi scritti di Rossana Rossanda sul suo “amico comunista” (che bella espressione, carica di significato politico, cioè umano!). A me preme invece in questa sede parlare del suo passaggio “manifestista” e del suo polemico ma dignitoso distacco dal gruppo. E soffermarmi sul punto decisivo del dissenso di Natoli dal Manifesto che aveva contribuito a formare.
Dunque il Manifesto dalla sua nascita attraversa tutta (o quasi, non esageriamo) la cultura comunista democratica e radicale, ma ben presto si affaccia all’orizzonte la contraddizione decisiva di qualsiasi cultura politica egualitaria, cioè è combattuto tra movimento e istituzione. Una contraddizione vitale, sia chiaro, perché scritta nella storia eterna dell’uomo, nella sua capacità (o incapacità) di gestire insieme l’ordine e il disordine.
Già dalla sua nascita il Manifesto ebbe discussioni infinite sulla “forma partito” da adottare che poi confluirono nelle famose, e forse schematiche, “tesi sul comunismo” del 1970. Iniziò dunque una lunga diatriba che esemplifico rozzamente (chiedo scusa) così: c’erano i fautori del “partito prima” e quelli del “partito dopo”. Natoli era per quest’ultima scelta, e il primo scoglio (e dissenso) si annuncia proprio con la presentazione alle elezioni politiche del 1972 della Lista Manifesto che, nonostante l’intuizione del simbolo usato nella campagna elettorale (Pietro Valpreda, l’anarchico ingiustamente accusato della strage di Piazza Fontana a Milano, candidato con il famoso slogan “Libera Valpreda vota Manifesto“), uscirà sonoramente sconfitta dalla competizione.
E’ il primo nodo pubblico, diciamo “di massa”, che porterà alla luce le contraddizioni in seno al gruppo del Manifesto.
Natoli era tra i dissenzienti della scelta elettorale che, infatti, non fece altro che accentuare la logica partitistica (uso il termine nell’accezione negativa di chiusura schematica) che divenne addirittura soffocante con le aggregazioni frettolose tra spezzoni vari di sinistre spesso incompatibili per storia, cultura e linguaggio.
Ciò che avvenne dopo la sconfitta elettorale del 1972 e l’altra sconfitta determinante del 1976 è cruciale nella storia del Manifesto. Sono alcuni anni decisivi in cui si decide la partita e in qualche modo la si perde del tutto. Inizierà dopo infatti una storia “del giornale” che è solo in parte in continuità con gli “anni della politica”, in realtà se ne allontana sempre più col passare del tempo.
Aldo Natoli dunque aveva ragione nelle sue analisi che suggerivano di puntare su una seminagione diffusa, su rivoluzioni non più dietro l’angolo e quindi bisognose di essere coltivate con pazienza, preparando al meglio il futuro. Insomma la scelta dei famosi “tempi lunghi” (un’espressione chiara anche se io preferisco quella di “tempi sociali” misurati sull’aggregazione delle donne e degli uomini e non su quelli istituzionali, tanto meno elettorali) fu dunque l’intuizione intelligente di Aldo Natoli.
Il dirigente comunista si allontanò dal Manifesto non vedendo all’orizzonte nulla che preparasse un movimento sufficientemente diffuso in società quindi in grado, con quelle gambe robuste, di affrontare al meglio il discorso partito e quello più delicato delle istituzioni.
Iniziò quindi una collaborazione a “la Repubblica” che fu secondo me, a fronte di analisi giuste e corrette, un suo errore perché Natoli aveva prestigio e carattere per continuare a proporre le sue idee non solo a chi restava al giornale ma soprattutto ai tanti militanti che guardavano con speranza (e timore di veder finire malamente un’esperienza decisiva per la sinistra degli anni post sessantottini) al Manifesto.
Oggi che una sinistra radicale e di classe (di classe, non di “semiclasse” come Tsipras) fatica a nascere e il rapporto movimenti-istituzioni, cioè la capacità di guidare i processi partendo dal “brodo primordiale” (chiedo scusa se prendo a prestito questa espressione efficace di un comico di qualche anno fa) della società e investire in un secondo momento l’aspetto istituzionale, è sempre di più al centro del futuro, il nome di Aldo Natoli e la sua storia, i suoi interrogativi nell’esperienza “manifestista” sono più attuali e urgenti che mai.