di Loris Campetti
Era una brutta giornata d’autunno, l’autunno torinese. La spinta propulsiva dei 35 giorni di presidi ai cancelli di Mirafiori andava esaurendosi e crescevano le denunce per violenza privata, cioè contro i picchetti operai che disincentivavano i crumiri a varcare i cancelli o, peggio, a scavalcare il muro di cinta del gigante industriale – “il muro della vergogna”, tuonava il segretario generale della Fim Franco Bentivogli. In ballo c’erano 24 mila posti di lavoro e le conquiste di un decennio di lotte operaie.
L’appuntamento era al Teatro Nuovo, dove i vertici della Fiat guidata da Gianni Agnelli e, soprattutto, Cesare Romiti avevano convocato capi, impiegati e crumiri per invitarli alla “controrivoluzione”. Ci si aspettava qualche centinaio di “travet”, ma lo “sciafela leun” (schiaffeggia leoni, così chiamavamo Romiti) aveva lavorato bene, sguinzagliando tutti i suoi scherani: giornata di lavoro pagata e trasferta per i fuori sede. Arrivarono in migliaia, con cartelli e striscioni, grigi, brutti, rabbiosi: “Novelli, Novelli, riaprici i cancelli”, come se la protesta operaia fosse colpa del sindaco comunista. Teatro pieno, strada di fronte piena, partirono in corteo verso il comune. Io ero il cronista torinese del manifesto, Stefano quello inviato da via Tomacelli e con noi c’era un dirigente del Pci che al tempo si chiamava ancora Pci.
In tre guardavamo gli ascari del padrone sfilare, c’erano tante impiegate alla loro prima uscita sociale, emozionate e un po’ spaesate, vestite con l’abito della domenica. Stefano e il comunista (più tardi sarebbe approdato in Parlamento) si avvicinarono a una signora tirata a lucido appena uscita dal parrucchiere che alzava uno dei tanti cartelli di protesta antisindacale. “Si è fatta la permanente per l’occasione?”, chiesero con un sorriso raggiante, e lei visibilmente compiaciuta: “Sì, si nota?”. “Si nota – fu la risposta corale – ma la faccia resta sempre come il culo”. Cattiveria? No, rabbia di chi vede una storia finire, una storia iniziata un giorno d’autunno del ’69 e conclusa proprio da quella marcia dei cosiddetti 40 mila. In realtà erano al massimo la metà, e comunque una marea, violenta e fangosa. Uno tsunami antioperaio.
Tutti stanno ricordando Stefano Bonilli per il Gambero rosso e per la sua passione sperimentale e allora in controtendenza, soprattutto a sinistra, per il cibo, l’alimentazione e il vino. Ma Stefano è stato anche altro, un bravissimo giornalista, curioso, ironico, provocatore, mai neutrale. A me ha insegnato a raccontare tanto le lotte operaie quanto i consigli d’amministrazione. Il cibo l’amavo già per mio conto e fu automatico cominciare a lavorare con lui e Carlin Petrini al Gambero rosso, inserto del manifesto, pochi anni dopo i 35 giorni dell’80. Mi fece divertire, inviandomi nelle Langhe a intervistrare il fratello cuoco di Arpino, o a raccontare il menù della mensa di Mirafiori, o la pesca delle aragoste dietro l’isola di Mal di Ventre. Con annesse ricette e vini abbinati. Stefano se n’è andato, aveva 67 anni, se n’è andato di colpo. Lo salutiamo alzando un calice e facendo memoria dei suoi insegnamenti.