di No terzo valico | Valpolcevera e Valverde
A Trasta è in corso di costruzione uno dei campi base che ospiterà gli operai che nei prossimi anni (e tuttora) costruiranno la linea del Terzo Valico. I campi base sono immaginati come veri e propri villaggi indipendenti e isolati dal tessuto socio economico locale. In quello di Trasta (14.372 metri quadrati di estensione), che sorge nell’area dismessa del parco ferroviario di Teglia sulla sponda destra del torrente Polcevera, è prevista la costruzione di dormitori a due piani per 400 operai, parcheggi, guardianaggio, infermeria, magazzini, mense.
Le ditte stesse che realizzano i campi base delle grandi opere in tutta Italia li chiamano “campi di lavoro” e non è solo il nome che evoca il sinistro ricordo dei campi nazisti; l’architettura, i regolamenti che disciplinano la vita interna all’insegna della segregazione (vietando per esempio l’accesso di estranei dall’esterno), la militarizzazione che li isola da tessuto sociale circostante fanno sì che molti lavoratori condividano quest’espressione di un’operaio del cantiere TAV del Mugello: “Un campo lager. Qua è peggio… siamo considerati macchine da lavoro, non esiste la considerazione dell’uomo”.
Quando sarà finalmente operativo, il campo base di Trasta svelerà inequivocabilmente una delle grandi menzogne su cui la classe politica poggia la propaganda sull’utilità del Terzo valico: la promessa di “portare lavoro”. Quel giorno sarà evidente a tutti che “le tute arancioni”, ovvero gli operai dei cantieri delle grandi opere, non vengono reclutate sul territorio, ma sono trasfertisti che girano l’Italia e il mondo. Nel caso specifico dell’alta velocità sono spesso operai specializzati nello scavo delle montagne, provenienti da famiglie “storiche” di minatori del Meridione.
Reclutare persone non appartenenti alle comunità locali è una necessità strategica per le grandi ditte; persone sradicate dal tessuto locale, con famiglie lontane centinaia di chilometri, sono più facilmente ricattabili, perché più disponibili a condizioni di lavoro aberranti. Gli operai dei cantieri TAV vivono giorno e notte per mesi, spesso anni, uscendo dal campo base solo per entrare in cantiere e viceversa.
Il cantiere non è la fabbrica e la tuta arancione non è la tuta blu. La tuta blu fuori dalla fabbrica aveva una vita sociale legata al territorio e agli affetti. Sradicata dalla propria comunità, e isolata dallo stress del lavoro e dalla disciplina del campo, la tuta arancione non ha la possibilità né l’interesse di integrarsi al territorio e agli altri colleghi ed accetta condizioni di lavoro allucinanti pur di “scappare” appena può. (Pur di poter accumulare tre giorni consecutivi di ferie per raggiungere le famiglie e i paesi di origine, gli operai dei cantieri TAV sono stati per esempio i primi nel panorama del lavoro ad accettare anche sei turni notturni consecutivi nelle gallerie della montagna.)
L’operaio delle grandi opere, vivendo separato da tutti, diventa estraneo agli altri e a sé stesso; è un fantasma per tutti e quando muore in cantiere, come accadrà anche qua (le statistiche sulle grandi opere dicono che muore un lavoratore ogni quattro chilometri di avanzamento), la reazione è la rassegnazione, l’indifferenza. Questo è quanto è successo per esempio nel Mugello; agli scioperi e alla solidarietà popolare, alla commozione e alla rabbia, che erano seguiti alla morte di tre operai locali impegnati nella costruzione dell’autostrada del Sole negli anni Cinquanta, è seguito il gelido silenzio quando, nel 2008, a morire per la costruzione della variante di Valico furono tre operai meridionali che campi base e cantieri avevano in quegli anni reso invisibili e sconosciuti alla popolazione locale.
L’intero sistema delle grandi opere è un’organizzazione ultrapianificata e razionalizzata del grande Capitale, in cui tutto è calcolato non solo per il profitto dei soliti noti ma anche per abituare noi sempre più ad una vita precaria, misera. La gestione del lavoro nei cantieri è specchio di questa volontà, e la coerenza del sistema TAV è in questo senso tanto palese quanto cinica: un treno destinato a sradicare persone e comunità dalle loro terre non può che essere costruito da lavoratori sradicati dalla loro comunità e dalla loro stessa vita; le devastanti condizioni di vita e lavoro nei cantieri sono l’altra faccia, complementare, della devastazione della terra.
I cantieri dell’alta velocità, aggiornando la lezione classica del capitalismo (treni per ricchi costruiti da poveri sottoposti al ricatto della sopravvivenza), ci fanno intravedere un’idea di vita che va riconosciuta nella sua insopportabilità anche quando non c’è un’infiltrazione mafiosa nella spartizione di soldi e appalti a monte, anche quando non si muore schiacciati da un masso in una galleria. Il TAV, è sempre più evidente, non è un semplice treno, è un progetto di mondo e le condizioni di vita di chi si trova costretto a costruirlo sono uno specchio limpido e brutale in più in cui guardarsi e capire che tutto questo va combattuto, per il presente e il futuro di tutti.