Rudi Ghedini
A suo tempo, nel 2009, sono stato iscritto a Sinistra Ecologia e Libertà. A differenza di altri, attratti innanzitutto dal carisma di Vendola – chissà che fine han fatto le “fabbriche di Nichi”? -, mi ero convinto potesse trattarsi di un progetto politico in grado di articolare una sfida “alla pari” con il Pd di Veltroni e Franceschini. Non qualcosa che si limitasse alla rendita di posizione, speculando sui limiti del Pd, come è accaduto nella “stagione dei sindaci”, quando Sel ha saputo esprimere singole personalità in grado di prevalere nel gioco delle primarie, sollecitando il Pd a un cambiamento di pelle, il tardivo remake socialdemocratico incarnato da Pierluigi Bersani.
Mi pareva ci fossero le condizioni per avviare la ricostruzione di una sinistra dotata di un propria lettura della società italiana, delle nuove ingiustizie che si sommano alle vecchie, con proposte di rottura rispetto al “pensiero unico” identificato fin dai tempi di Genova. E magari con una capacità di agire forme della politiche in grado di ridare credibilità a una sinistra già largamente compromessa, nel senso comune, con la categoria della casta.
Speravo che Sel fosse l’erede dei social forum, il soggetto in grado di ridare speranza a un pezzo di popolo incline alla defezione dal voto o alla ribellione grillina. Verificando le scelte concrete compiute dal nuovo partito, innanzitutto a Bologna, ho rapidamente, amaramente concluso che Sel non voleva né sapeva esserlo.
Per brevità, mi limito a poche righe su ciò che era successo prima. Sel nasce dalla scissione di Rifondazione comunista, fatta dalla componente più numerosa, messa in minoranza dall’acrobatica alleanza di tutte le altre. Rifondazione veniva dall’aver mancato l’ingresso in Parlamento, in quel 2008. E il trauma dell’esclusione parlamentare ha segnato la breve parabola del nuovo partito, apparso disposto a tutto pur di rientrare in gioco. Cioè nelle istituzioni. Unico senso nella vita. Sintomatico lo slogan “sinistra di governo”.
Per brevità, mi limito a poche righe anche su ciò che è successo fra il 2010 e le elezioni dell’anno scorso, dove il milione di voti di Sel – che si sfilò, non senza ragioni, dal progetto di Rivoluzione Civile, condannandolo all’irrilevanza, perché solo una sinistra sopra il 10% può provare a giocarsela con il Pd – ha consentito a Bersani di “non vincere”, a Letta di non governare e a Renzi di scalare il partito e il governo senza colpo ferire.
La quota maggioritaria conquistata da Italia Bene Comune è stata ripetutamente tradita. Nel voto sulla Presidenza della Repubblica – indimenticabile il volto di Vendola che scopre da Mentana, in diretta tv, che Bersani e altri stanno implorando Napolitano – poi facendo nascere il Governo Letta, e ancora con la conclusione patologica, la congiura di palazzo dell’enricostaisereno.
Mancando di coraggio politico e di analisi del mutamento sociale, Sel non poteva essere concorrenziale né verso il Pd, né verso il M5Stelle: il 3% incassato alle politiche 2013 era già una sentenza definitiva. Un lapidario giudizio di inutilità. Il paradosso è che quella sconfitta ha regalato cento deputati al Pd e aperto la porta a Renzi, contro cui Vendola aveva duettato nelle primarie 2012, regalando a Bersani un po’ dei suoi voti nel ballottaggio.
Di fronte alle elezioni europee, con i dubbi su Tsipras e la sinistra fuori dal Pse, si è palesata una divaricazione che il carisma ammaccato di Vendola – la telefonata ad Archinà dell’Ilva doveva consigliargli un lungo passo indietro – non poteva più gestire. Ci mancavano solo i ripensamenti della Spinelli (e le sue accuse tutt’altro che velate): le defezioni di una serie di deputati, irresistibilmente attratti verso il sostegno al governo, mi sembrano l’esito inevitabile.
Metà del gruppo parlamentare sta abbandonando la nave che affonda. Naturalmente, nessuno si dimetterà da deputato, ma la rappresentazione dei media sarà molto diversa da quella degli “epurati” da Grillo… Ognuno parlerà di coerenza, ognuno vedrà solo la propria, e la storia delle scissioni nella sinistra italiana si arricchisce di un nuovo, dimenticabile capitolo.
Sinceramente, vedo più nitide le ragioni che non condivido – quelle di Migliore, Fava, DiSalvo… di chi se ne va, insomma – rispetto a quelle di chi insiste a sventolare l’orgogliosa bandiera del partito e dell’opposizione alle “larghe intese”. Chi se ne va da Sel scommette sulla permeabilità del partito renziano, sulle alleanze con cuperliani e civatiani, sulla nascita di una “sinistra Pd” che non sarà molto affascinante, ma forse è il massimo che la storia d’Italia nella seconda decade del XXI secolo è in grado di partorire. Tornano le Feste dell’Unità, che volete di più… Chi se ne va da Sel non è un traditore e non è nemmeno un opportunista. Mi pare, piuttosto, uno di quei disperati che incarnano un pensiero riassumibile nella frase che a chiunque è capitato di sentire: “Non mi piace Renzi, ma spero non fallisca, perché dopo di lui il diluvio”.
Quelli che restano in Sel, invece, mi pare non sappiano che pesci pigliare. Temono di venir schiacciati dall’argilloso colosso piddino, ma nel 99% dei casi ancora 15 giorni fa ci si sono alleati, finendo per apparire, di nuovo, come quei portatori d’acqua che prima strepitano e poi abbassano la testa, digerendo qualsiasi cosa. Conosco molti che se ne sono andati da Sel, rimproverando la subalternità al Pd, e fra loro ce ne sono che teorizzano che se si vuol condizionare il Pd, il “voto utile” è ai Cinque Stelle. Aspettando Landini…
Marginale rispetto al naufragio della sinistra, il progetto di Sel fallisce nella desolante tristezza di un voto sugli 80 euro.