di Maurizio Matteuzzi
Domenica 15 luglio, nell’euforia per la rocambolesca vittoria per 2 a 1 sull’Ecuador all’ultimissimo istante della sua prima partita ai mondiali in Brasile, certamente la nazionale Svizzera non ha prestato attenzione a una particolarità (quasi) unica del teatro della sua impresa: aver giocato e vinto nello stadio più caro del mondo dopo quello londinese di Wembley, ricostruito nel 2007 al costo di 918 milioni di euro, e dopo il nuovo Yankee Stadium di New York, inaugurato nel 2009 e costato 1100 milioni di euro.
Lo Stadio nazionale di Brasilia, intitolato all’indimenticabile Mané Garrincha, la “alegria do povo”, è costato 664 milioni di euro. Tre volte tanto il budget inizialmente previsto e il più costoso fra i 12 stadi costruiti o rimodellati in occasione della grande e controversa kermesse brasiliana. Peraltro costati tutti fra il doppio e il triplo di quanto era stato calcolato dopo che nel 2007 la FIFA di Sepp Blatter aveva assegnato al Brasile i campionati mondiali del 2014.
Il Brasile di Lula era in pieno boom economico e sociale e l’assegnazione della massima manifestazione del calcio sembrava il logico riconoscimento del suo nuovo status sulla scena internazionale (sancito poi, nel 2009, anche dalla scelta di Rio de Janeiro come sede delle olimpiadi del 2016). Allora l’entusiasmo per quello che fu subito definito, dato il rapporto simbiotico fra il “futebol” e il paese, “il mondiale dei mondiali”, era (quasi) unanime – i sondaggi davano l’80% di giudizi favorevoli – e l’appuntamento era visto sia come la grande occasione per la Seleção verde-oro, già “pentacampeão”, di conquistare il sesto titolo e divenire l’unica e irraggiungibile “hexacampeão”, sia come una sorta di risarcimento, 64 anni dopo, per il tragico “Maracanzo” del 1950, quando l’Uruguay del grande Obdulio Varela, celebrato da Osvaldo Soriano e Eduardo Galeano, vinse per 2 a 1 la finale contro il Brasile gelando i 200 mila del Maracanã e procurando una ferita nell’immaginario collettivo brasiliano che non si è più rimarginata.
Il Brasile di Lula e, dopo il 2010, di Dilma Rousseff volle le fare le cose in grande, anche troppo. La Fifa chiedeva 8 città come sedi delle partite e loro ne scelsero 12. I costi si sono dilatati cammin facendo, di pari passo ai problemi e, come al solito, alle voci di corruzione e ruberie. I 12 stadi nuovi di zecca o rimodernati, alla fine sono costati 2.7 miliardi di euro, più della somma dei costi dei mondiali di Germania-2006 (1.1 miliardi) e del Sudafrica-2010 (1 miliardo). Il governo aveva preventivato una spesa totale di 10-11 miliardi di euro ma sembra che alla fine la spesa totale sarà 4 volte superiore.
La Confederation Cup del giugno 2013, una specie di antipasto del mondiale, era già stata l’occasione per un cambio radicale di clima e umore di un paese che, investito dalla crisi economica globale, fu squassato, fra la sorpresa di molti (a cominciare dal governo “progressista” di Dilma e del PT, il Partido dos Trabalhadore suo e di Lula), da un’ondata di manifestazioni di massa che richiamavano quelle delle piazze arabe, spagnole o newyorkesi e che non si erano più viste, in Brasile, dai tempi delle grandi mobilitazioni del ’92 contro il presidente neoliberista e corrotto Fernando Collor de Mello (“Fora Collor”) e quelle, ancor più lontane dell’83-’84, contro il regime militare per le elezioni politiche dirette e immediate (“Diretas já”).
Allora gli “indignati” già questionavano le spese faraoniche per i mondiali e tutto il contorno che essi inevitabilmente si portavano dietro: trasporti pubblici più cari, sgomberi coatti delle aree delle città destinate agli stadi, “pacificazione” manu militari delle favelas, corruzione dei politici, impennata a catena dei prezzi, brutalità assassina e impune della polizia (responsabile di 2000 morti l’anno), crescita del livello già altissimo di violenza e insicurezza.
La piazza e le strade – studenti e favelados, il popolo del social network, la nuova ma vulnerabile “classe media” creata dalla politica inclusiva di Lula -, cui forse non era estranea la cultura sedimentata nei forum sociali mondiali lanciati fin dal 2001 a Porto Alegre, esigevano che i miliardi stanziati per i mondiali il governo (“progressista” per di più) li spendesse per migliorare i pessimi trasporti urbani, risolvere il drammatico problema della casa per i ceti più poveri, rendere meno orribile il livello della sanità e della istruzione pubbliche, diminuire l’abisso che esiste e resiste fra la minoranza di abbienti e la maggioranza di non abbienti.
Nonostante gli straordinari risultati raggiunti negli 8 anni di Lula – 30-40 milioni di brasiliani strappati alla condizione di marginalità-esclusione, entrati nel circuito economico formale e divenuti “classe media” grazie ai programmi sociali tipo “Fome Zero”, “Bolsa Familia”, “Bolsa Escola” e (con Dilma) “Minha Casa-Minha Vida” – il grande Brasile è ancora un paese povero e diseguale. Il tasso di povertà (estrema e moderata) resta al 24.5% con un altro 37.3% di popolazione considerata “vulnerabile” (reddito da 4 a 10 dollari al giorno). Il 20% più ricco dei 200 milioni di brasiliani capta il 55% della ricchezza contro il 4.5% del 20% più povero. Il livello delle diseguaglianze è caduto negli anni di Lula e Dilma ma resta altissimo: misurato con il coefficiente Gini, dove lo 0 equivale all’uguaglianza assoluta e 1 alla diseguaglianza totale, è ancora sopra lo 0.5, a un passo da quello 0.4 che significa instabilità sociale, e in termini di diseguaglianze il Brasile occupa il posto numero 17 su 140 paesi censiti.
Allora, nel giugno 2013, Dilma, che qualunque sia il giudizio sulla sua presidenza soffre di un forte deficit nella capacità di comunicare, andò in tv a dire che tutte le spese per la coppa sarebbero state finanziate dai privati, che “non avrebbe mai permesso che questi soldi venissero dalle tasche dai contribuenti danneggiando aree essenziali quali la sanità e l’educazione” e, nel tentativo di frenare le proteste dilaganti, si impegnò a un piano di riforme nei trasporti pubblici da 50 miliardi di reais (16-17 miliardi di euro) garantendo anche che “tutti” i profitti attesi dalle colossali risorse petrolifere scoperte nell’Atlantico (che, secondo la previsioni, faranno del Brasile un esportatore netto di petrolio e, dal 2035, il sesto produttore mondiale con 6 milioni di barili al giorno) sarebbero stati usati per migliorare l’istruzione e la sanità pubbliche.
Oggi, il giorno dopo i fischi e gli insulti rimediati, giovedì 12 giugno 2014, da Dilma (e da Blatter seduto al suo fianco) nella partita di inaugurazione dei mondiali fra Brasile e Croazia allo stadio di Itaquerão di San Paolo (un’opera fra le più chiacchierate probabilmente al centro di una colossale speculazione edilizia), la presidente brasiliana è di nuovo uscita allo scoperto per assicurare che le opere edificate per i mondiali, oltre ad avere creato “700 mila posti di lavoro” fra temporanei e stabili, “non sono per la coppa ma per il popolo di questo paese” e che “dal 2010 al 2013, il governo federale e i governi statali hanno stanziato 762 miliardi di reais per la sanità e l’istruzione, 212 volte quanto investito per gli stadi”.
Le polemiche e le proteste sui mondiali sarebbero quindi “un falso dilemma”. Ma non sarà facile convincere una opinione pubblica che adesso, grazie anche alle politiche e alle iniziative dei governi di Lula e Dilma, chiede ed esige di più. E non tollera che le spese colossali investite per i mondiali, vengano non per il 90% dai privati e per il 10% dallo Stato, come Dilma aveva promesso, ma per il 90% (e più) dallo Stato e per il 10% dai privati. Il discredito che colpisce la politica e i politici anche in Brasile rende difficile credere alla assicurazione di Dilma che quel 90% è stato elargito ai privati sotto forma di crediti e prestiti dalla BNDES, la statale Banca Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale, e che sarà restituito.
Oggi quell’80% dei pareri favorevoli ai mondiali registrato dai sondaggi nel 2007 si è capovolto nell’80% di pareri che disapprova gli investimenti fatti per la coppa e che considera sarebbe stato meglio investire quei soldi per altri e più utili scopi. Senza credere alle rassicurazioni di Dilma sui “ritorni” di medio e lungo periodo di quegli investimenti su infrastrutture urbane, trasporti, telecomunicazioni, mobilità, turismo, sicurezza etc. etc.
“La coppa non è per i brasiliani”, si sente dire in giro. Non solo per le spese faraoniche e gonfiate in opere che rischiano di diventare – almeno gli stadi – cattedrali nel deserto e non solo perché il grande beneficiario della kermesse sembra essere la FIFA, che dai mondiali del Brasile si attende ricavi-record di 4.5 miliardi di euro (e in ogni caso appare il vero dominus dell’evento: è riuscita persino a obbligare il governo brasiliano a sospendere la vigenza della legge che proibisce la vendita di alcolici all’interno degli stadi, visto che uno dei suoi 22 sponsor è la birra Budweiser). Ma anche perché la stragrande massa della gente non si potrà mai permettere di assistere dal vivo a una delle 64 partite nei fiammanti stadi visto il prezzo dei biglietti, che nonostante la FIFA assicuri che “sono i meno cari di sempre”, costano più o meno un salario minimo mensile (che dal primo gennaio scorso equivale a 240 euro).
Un paradosso nel paese del “futebol”. Un “falso dilemma”? Forse. Di certo un catalizzatore sia in alto – il governo – sia in basso – il corpo sociale – di un paese inquieto.
Dilma, che la rivista Forbes classifica come la seconda donna più potente del mondo dopo la tedesca Angela Merkel, deve sperare che Neymar e compagni il 13 luglio al Maracanã alzino la coppa e siano incoronati “exhacampeões”. Perché se no per lei, che in sondaggi danno intorno al 40% delle intenzioni di voto ma in calo, il “fattore mondiali” potrebbe rivelarsi pesante, se non decisivo, in vista delle elezioni presidenziali del 5 ottobre.